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La fase 5

Autore: Ester Annetta
Uno dei primi apprendimenti che, sin dagli studi primari, si ricava dai libri di storia è che, ad ogni guerra d’espansione combattuta tra popoli, segue sempre un periodo di crisi ai danni di quello risultato perdente. La sequenza è sempre la stessa: la guerra, tanto più se molto aspra e duratura, impedisce gli approvvigionamenti, causando insicurezza alimentare; quindi segue la carestia e, ad essa, le epidemie, giacché è molto più facile per le malattie attecchire su una popolazione stremata.

Neppure l’evolversi delle civiltà può contrastare questa drammatica parabola. Anzi, la guerra impoverisce la civiltà, fa regredire Stati e popolazioni; ed è dunque inevitabile che quello schema resti immutato, in qualunque tempo e ovunque si combatta.
A Gaza è ormai prossimo il tempo della carestia, la “Fase 5”, secondo l’IPC, il sistema di Classificazione Integrata delle Fasi della Sicurezza Alimentare (Integrated food security Phase Classification) utilizzato dalle Nazioni Unite.

Si tratta di un sistema di monitoraggio dell’insicurezza alimentare basato sull’utilizzo di strumenti standardizzati che permettono di fare comparazioni sia nel tempo sia tra Paesi, concentrandosi sull'intensità piuttosto che sulla grandezza del fenomeno.
Il punto di partenza della scala IPC è la Fase 1: Generale sicurezza alimentare; segue la Fase 2: Moderata insicurezza alimentare; quindi la Fase 3: Acuta crisi alimentare e dei mezzi di sostentamento; poi la Fase 4: Emergenza umanitaria; e infine la Fase 5: Carestia/catastrofe umanitaria.

Sempre secondo l’IPC, si parla di carestia o di catastrofe umanitaria in un determinato Paese quando: almeno il 20% delle famiglie deve far fronte a una totale mancanza di cibo; almeno tre persone su dieci mostrano segni di malnutrizione acuta; il tasso di mortalità supera i due decessi ogni 10mila persone al giorno sul totale della popolazione.

Ecco. Proprio questo sta succedendo nella zona del conflitto accesosi nella Striscia da pochi mesi e già arrivato alle sue più estreme conseguenze.

Secondo l’ultimo rapporto IPC dello scorso 18 marzo, l’intera popolazione di Gaza sta affrontando l’insicurezza alimentare a livelli di crisi o peggiori e si prevede che, da qui a maggio, la carestia sarà conclamata nei due governatorati settentrionali di Gaza, dove rimangono intrappolate circa 300.000 persone. Difatti risultano inesorabilmente in crescita sia la malnutrizione acuta tra i bambini al di sotto dei cinque anni sia la mortalità non causata da traumi (quest’ultima costituisce l’indicatore finale di carestia).

I dati sono confermati anche dal WFP (World Food Programme) il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, secondo il cui, a Gaza, 1,1 milioni di persone (ossia metà della popolazione) hanno completamente esaurito le loro scorte di cibo e le loro capacità di fare fronte alla situazione, e lottano contro una fame catastrofica e la morte per fame.

E, ancora, la portavoce dell'Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha riferito che a Gaza i medici parlano di “neonati che muoiono perché non pesano abbastanza e di un numero crescente di bambini che sta ormai per morire".

I numeri registrati a Gaza di persone ormai preda di una fame catastrofica sono tra i più alti mai rilevati dal sistema IPC ed aumentano ad un ritmo spaventoso. Una tendenza, questa, che potrebbe essere invertita – e non c’è bisogno di rapporti e statistiche per comprenderlo - soltanto se venisse concesso un accesso umanitario totale e senza ostacoli alle aree dove sono stati confinati i civili, per poter fornire cibo, acqua ma anche medicine e servizi igienico-sanitari, perché il passaggio all’ultimo stadio – le epidemie – non è affatto escluso.

Ma è, questa, una soltanto – la più immediata - delle azioni da mettere in campo per poter fermare questa rovina. Ad essa dovrebbero associarsi altre condizioni: la tempestività dell’intervento, una risposta coordinata a livello internazionale e, su tutto, la cessazione del conflitto.

Un’utopia, evidentemente.

Ecco perciò che, a dispetto d’ogni umana forma di pietà, alla guerra di sangue continua ad aggiungersi anche quella che impone morti indirette, più meschine ed anacronistiche, in sfregio al rispetto per gli innocenti, in specie i più piccoli.
Ed è proprio questo, più d’ogni altro, il dato inquietante: che nel terzo millennio, possa ancora essere la fame a far morire i bambini, vittime, si, della guerra ma anche dell’inerzia e della cecità degli adulti.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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