Riporto dal vocabolario Treccani:
parsimònia s. f. [dal lat. parsimonia, der. di parcĕre «risparmiare» (supino parsum)]. – La qualità di chi è parco; moderazione, giusta misura nell’uso del denaro o di altri beni, per un senso di doverosa economia o per abituale frugalità di vita.
avarìzia s. f. [dal lat. avaritia, der. di avarus «avaro»]. – Eccessivo ritegno nello spendere e nel donare, per un gretto attaccamento al denaro e a ciò che si possiede (considerato, nella dottrina cattolica, uno dei sette peccati capitali).
Parto da queste due definizioni per addentrarmi in un argomento che spesso offre occasione di disquisire, specie se la pretesa è quella di considerare i due termini sinonimi, nell’intento di “scagionare” chi è vittima (ma forse sarebbe meglio dire colpevole, come apparirà chiaro a breve) della seconda condizione.
La parsimonia è un vero e proprio stile di vita, improntato alla semplicità, al risparmio ed all’oculatezza, sicché al denaro viene dato il peso sufficiente e necessario a determinare la qualità della stessa. Il parsimonioso infatti non si priva (né priva chi gli è intorno) del necessario né dei piaceri, sebbene vi si accosti con prudenza.
L’avarizia è invece una condizione di tale patologico attaccamento al denaro da determinare un eccessivo abbassamento del livello della qualità di vita giungendo persino a danneggiare i rapporti interpersonali. Il denaro viene anteposto a chiunque ed a qualunque cosa, anche al proprio benessere, ai piaceri ed alle comodità, costringendo ad una condizione di ristrettezze ingiustificate, giacché non ha a fondamento motivi oggettivi, come la scarsa disponibilità economica, quanto piuttosto il timore di perdere quella che si possiede. L’avaro tende dunque ad accumulare; e questa condizione materiale si riflette anche sulla sua struttura mentale, rendendolo insensibile anche ai bisogni altrui nonché guardingo e sospettoso nei confronti di chiunque.
Mi serviva questa premessa per introdurre una recente e singolare pronuncia (sentenza n. 6937/2023) con cui la sesta sezione penale della Cassazione ha confermato la condanna pronunciata dalla Corte d’Appello di Bologna a carico di un uomo reo di aver imposto al coniuge un regime economico troppo restrittivo.
La vicenda è quella di un marito che, inizialmente soltanto “parsimonioso”, aveva finito col tempo per assumere un comportamento ossessivamente dipendente dal denaro tale da indurlo a “condotte controllanti e pervasive finalizzate a imporre alla consorte uno stile di vita volto ad un risparmio ingiustificato”. Condotte che la Corte d’Appello aveva ritenuto vessatorie al punto di integrare gli estremi del reato di maltrattamenti e, dunque, condannarlo.
E, difatti, l’uomo aveva imposto alla moglie un vero e proprio regime per cui: decideva quando, dove e come potesse fare la spesa, consentendole acquisti solo in negozi "notoriamente a costo contenuto" e di prodotti comprati "in offerta, sia per la casa che per l'abbigliamento"; a tavola bisognava usare una sola posata e un solo piatto e i tovagliolini di carta dovevano essere riutilizzati più volte. Persino per la propria cura personale, alla donna non era consentita più di una doccia a settimana e in bagno doveva servirsi "solo di due strappi di carta igienica" alla volta; l’acqua che impiegava per lavarsi doveva essere recuperata in una bacinella e reimpiegata.
Come se non bastasse, tutti questi obblighi erano “accompagnati da modalità di controllo particolarmente afflittive”, divenute vere e proprie vessazioni: l’uomo chiamava spesso la moglie “sprecona” e lei era “costretta a buttare via gli scontrini, a nascondere gli acquisti, a lasciare la spesa a casa dei genitori, a chiedere alle amiche di dire che le avevano regalato qualcosa che aveva acquistato”.
La Cassazione ha respinto il ricorso con cui l’uomo aveva impugnato la sentenza di condanna per maltrattamenti inflittagli in appello rilevando, tra l’altro, che “durante il giudizio di merito, le dichiarazioni rese dalla persona offesa del reato, confermano che se dapprima il regime restrittivo era condiviso, in seguito si è trasformato in una vera e propria imposizione insopportabile da parte del marito.”
A tal proposito la Suprema Corte ha sottolineato – con richiamo all’art. 143 c.c - che «il rapporto matrimoniale impegna ciascuno del coniugi a un progetto di vita che riguarda anche le spese e il risparmio» e che «i coniugi, ciascuno in relazione alle proprie sostanze e alla propria capacità di lavoro professionale o casalingo, si impegnano a contribuire al bisogno della famiglia». Ed è anche lecito che la coppia stabilisca «uno stile di vita improntato al risparmio, anche rigoroso e non necessitato». Ma non può trattarsi di un’imposizione: «È indiscutibile - si legge nella sentenza - che tale stile di vita debba essere condiviso e non possa essere imposto, men che meno in quelle che sono le minimali e quotidiane esigenze di vita in casa e accudimento personale».
La donna ha invece riferito una vera e propria coartazione al risparmio, con condotte controllanti e pervasive del marito, concluse con un regime di assillo tale da provocarle uno stato di ansia e di frustrazione continui.
Per di più “i coniugi non avevano scadenze o esigenze economiche impellenti che avrebbero potuto giustificare una simile oculatezza sulle spese. Difatti entrambi avevano un impiego e uno stipendio, per questo la donna era costretta a nascondere le spese a casa dei genitori o delle amiche, gettando via gli scontrini.”
Nel corso del giudizio d’appello era perciò emerso “un cambiamento evidente nella personalità della donna solare e piena di vita, confermato anche dalle testimonianze, che sfocia nella diagnosi di disturbo post traumatico da stress e intenti suicidi”.
Pertanto la Corte ha concluso che il comportamento del marito era retto esclusivamente dalla volontà di sopraffare la donna condizionandone ogni decisione o azione mediante ingiurie e offese, e ne ha dunque confermato la condanna.