Lasciato solo dalla moglie e dai due figli, Raffaele Lioce, a 80 anni, viveva nella sua casa di Foggia circondato da cumuli di oggetti inutili ed inservibili - persino rifiuti – che raccattava ovunque, durante le camminate quotidiane che compiva appoggiato alle sue stampelle.
Ma da qualche mese nessuno lo aveva più visto in giro, sicché i suoi vicini si erano infine decisi a dare l’allarme, preoccupati tuttavia non tanto per la sua assenza o dal fatto che la porta del suo appartamento fosse rimasta inspiegabilmente aperta, quanto dal pericolo igienico-sanitario che temevano di correre giacché da quella casa ormai divenuta un antro inaccessibile a causa dell’immane quantità di roba ammucchiatavi, provenivano insetti e topi, oltre ad un odore nauseabondo.
Né l’amministratore di sostegno che il Tribunale gli aveva nominato né i servizi sociali che erano a conoscenza delle sue condizioni di vita si erano dati pena per le sorti di quell’omone grande e grosso scomparso, e solo dopo che la trasmissione “Chi l’ha visto?” - interpellata dai vicini esasperati - si era interessata alla vicenda, il commissario prefettizio del comune di Foggia aveva ordinato lo sgombero dell’appartamento.
Solo allora era stata fatta la macabra scoperta: Raffaele non era andato da nessuna parte; era rimasto sempre lì, letteralmente sepolto sotto le sue cose accatastate ovunque, persino sul letto dove si era addormentato per sempre.
Si chiama Disposofobia o Disturbo da accumulo, e, nel DSM-V (il Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali) viene descritto come il disturbo ossessivo compulsivo caratterizzato dalla tendenza ad acquisire e conservare una grande quantità di oggetti, da una marcata incapacità di disfarsene nonostante non abbiano nessun valore apparente, e da una compromissione del funzionamento quotidiano causato soprattutto dalla difficoltà di mantenere in ordine gli spazi domestici. Chi soffre di tale disturbo prova un intenso bisogno di salvarle ciò che accumula ed un forte disagio all’idea di separarsene.
Racconta Titti, una sua conoscente, che per Raffaele «l'immondizia era tutto il suo mondo e, nella sua mente, regalare i suoi rifiuti era un gesto di vero cuore».
Raffaele era attaccato ai rifiuti perché era un rifiuto egli stesso, un avanzo d’esistenza abbandonato da tutti. Attaccarsi a ciò che gli altri buttavano era dunque ciò che lo faceva sentire ricco di fronte alla povertà e alla solitudine della sua vita. Era il suo modo di sentirsi al sicuro, di colmare i suoi bisogni affettivi senza rendersi conto che quel suo accumulare lo portava, paradossalmente, ad isolarsi dal mondo, dalla socialità, a rintanarsi sempre più sotto quei cumuli di cose che riducevano inesorabilmente il suo spazio fisico e vitale.
Eppure tutti lo vedevano; tutti lo sapevano: i vicini, i servizi sociali, il suo Amministratore di sostegno. Ma nessuno si è attivato per far si che il disagio di Raffaele - chiara causa del suo disturbo - fosse affrontato. Nessuno gli ha offerto aiuto, nessuno ha chiesto aiuto, se non quando si è trattato di far bonificare quell’ambiente che rappresentava un attentato alla salubrità d’un condominio indifferente.
Contro l’indifferenza, l’abbandono ad un finale d’esistenza triste e solitario, l’indegnità di un Amministratore di sostegno che immola il sentimento di umanità al guadagno, sta invece cercando ancora di combattere Dora Piarulli, che, dalla RSA dov’è stata coattivamente ricoverata, continua a urlare la sua volontà di tornare a casa, tra le sue cose, con i suoi gatti Ignazio e Forza Juve e la sua devota badante.
A 80anni - la stessa età di Raffaele – Dora rivendica il suo diritto ad una vecchiaia serena, a spegnersi circondata da ciò che ama e da chi è amata, a concludere la sua esistenza come una persona e non come un numero, collocata in una struttura dove mancano gli ingredienti fondamentali per lasciare la vita terrena senza rimpianti: la cura (non quella medica!) e l’amore.
Ma combatte contro un sistema che non stempera la propria rigidità nemmeno di fronte all’evidenza che il “bene” è quello che giova al cuore, all’anima ed alla mente e non quello che risponde a modelli teorici, paludati di retorica e burocrazia.
Dora lotta, e col lei lotta sua figlia, che per poter far valere il suo ruolo deve contrastare “il potere” che ha un terzo estraneo – nominato da un giudice - di decidere quale sia il benessere di sua madre. Senza ascoltarla, senza tenere in conto i desideri di quella donna ormai sfiorita che, sebbene dalla vita sia stata duramente provata – tra abbandoni, malanni e alcolismo – ha saputo rialzarsi dopo ogni caduta e vorrebbe ora soltanto scegliere dove morire, in pace e con dignità.
Quel tristo figuro, quel rapace Amministratore di sostegno, dimentica di essere la figura che, nell’intendimento dei padri della legge che l’hanno coniata, ha come indicazione di condotta «imprescindibile innanzitutto l’ascolto della persona beneficiaria. Dovrà trattarsi di un ascolto non frettoloso, né meccanico: con atmosfere e tempi non dettati da un carico puro e semplice dei ruoli. Soprattutto di un ascolto che alla solennità degli scranni giudiziali sappia preferire, via via, i registri più tenui del dialogo empatico, delle complicità».
La volontà della “persona beneficiata”, qualora ne sussistano le condizioni, dovrebbe perciò sempre essere rispettata. E per Dora quelle condizioni ci sono tutte, poiché non solo nella sua casa ha tutto ciò di cui ha bisogno per un’assistenza ottimale ma lei per prima possiede tutta la lucidità necessaria a saper distinguere cosa giova al proprio benessere.
Lo scorso 29 marzo un giudice si sarebbe dovuto pronunciare sulla richiesta di Anna, la figlia di Dora, di rimandare a casa sua madre. Ma ha preferito riservarsi e rimandare la decisione ad altro tempo, in attesa di raccogliere ulteriori elementi – sempre pregni di retorica e burocrazia, ovviamente – che depongano a favore del vantaggio di lasciare una triste (per quanto bella) RSA per la felice (per quanto ordinaria) casa in cui, tra vissuto e ricordi, Dora ha trascorso la sua esistenza.
Dora quest’ultimo sprazzo di vita autentica lo pretende. E per averla, paradossalmente, ha deciso di lasciarsi morire.
Che l’abbiano sulla coscienza tutti coloro che le consentiranno questo sacrificio.