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La moda francese

Autore: Ester Annetta
Una mattina della scorsa settimana scorsa, Mauro è arrivato a scuola con un piccolo ma vistoso livido sul viso, all’altezza dello zigomo. Lui è uno tra i più vivaci ragazzi della classe, ma non per questo ha mai avuto atteggiamenti da leader né da bulletto; è anche belloccio e molto intelligente, ma di quelli che – come si diceva ai miei tempi – “non si applica”. È pure un appassionato di calcio e milita da titolare in una squadra di eccellenza, per cui si allena ogni giorno e gioca tutte le partite.

Proprio per questo motivo, quando l’ho visto ho creduto che quel livido se lo fosse procurato durante un incontro o un allenamento, magari in un contrasto con qualche avversario, o che avesse preso una pallonata in faccia. L’ho persino bonariamente canzonato, chiedendogli se avesse fatto a botte con qualcuno (certa che così non fosse, giacché giurerei che non è un attaccabrighe) o se gli avesse dato una lezione la sua fidanzatina.

Ha sorriso senza dare alcuna risposta e la cosa è finita lì.

Qualche giorno dopo, però, mi sono imbattuta nella lettura di un articolo che mi ha decisamente allarmato. Descriveva una nuova tendenza che pare stia spopolando su Tik Tok, attirando diversi ragazzi, anche giovanissimi, nell’ennesima trappola esibizionistica che stavolta, però, rischia di diventare davvero pericolosa.

Si chiama “cicatrice francese” e consiste nell’autoinfliggersi dei pizzicotti sulla guancia, all’altezza dello zigomo, tali da causare la rottura dei capillari e quindi lasciare un segno all’apparenza molto simile ad un livido.

Il motivo della “nazionalità” del segno pare dovuto al richiamo alle cicatrici esibite dai criminali delle bande francesi o – secondo altra versione – a quelle che segnavano i volti dei Tontons Macoutes, i membri della polizia privata segreta di Haiti creata nel ’59 dal dittatore François Duvalier con lo scopo di individuare ed assassinare i presunti nemici del regime.

Ora, che i francesi da sempre dettino la moda è notorio, ma l’ambito è sempre stato quello dell’abbigliamento e degli accessori dell’haute couture. Guai perciò a legittimare lo sfoggio di una cicatrice, pretendendo di renderla “elegante” grazie all’evocativo attributo nazionalistico, tanto più se si considera l’insidia che il gesto nasconde.

Ogni moda ha il suo stile, il suo carattere ed i suoi segni distintivi, e ciò vale sia che si tratti di “divise” da indossare, sia che si tratti di correnti di pensiero, movimenti, atteggiamenti incastonati in un preciso momento storico ed in una ben definita forma di costume.

C’è stata la moda dei figli dei fiori, quella punk o quella dark, ognuna con le sue specifiche e le sue connotazioni, talvolta anche molto marcate; si è poi passati a quella dei tatuaggi che, persa ormai la loro etichetta di distintivo da galeotti, sono divenuti delle vere e proprie espressioni artistiche cariche di simbologie strettamente intime. Ma assegnare ad una ferita, ad un livido o ad una cicatrice il valore di segno d’appartenenza, com’era un tempo per tribù o gang, non è solo anacronistico rispetto all’attuale contesto storico-sociale, ma è soprattutto altamente rischioso.

Stavolta il pericolo non abita solo nell’omologazione, in quella vacua ed ottusa tendenza a uniformarsi all’insulsa trovata del momento, quanto nel danno fisico che comporta il sottoporsi a rituali di indubbia stoltezza pur di dimostrare quel coraggio necessario a sentirsi accettati e ricompresi in una “famiglia”, in cui ad una fittizia parentela esteriore corrisponde un’opposta e raccapricciante orfananza di valori; stavolta non si tratta di forme di espressione artistica ed estetica, per quanto trasgressiva, ma di vero e proprio autolesionismo.

Ed è l’ennesima dimostrazione di fragilità di una generazione disagiata, priva di modelli di riferimento concreti e sani nonché abbindolata da quelli fittizi ed inedificanti che popolano il loro universo social, così distante e deviato dalla socialità vera.

È un potente campanello d’allarme che dovrebbe risuonare nella coscienza di genitori, insegnanti ed educatori in genere, che di fronte all’irresponsabile emulazione di comportamenti incorniciati da insano esibizionismo dovrebbero forse domandarsi quale disagio o mancanza stiano reclamando i loro ragazzi; se quel segno esteriore che si autoinfliggono più che un marchio d’appartenenza non sia invece un richiamo, uno strumento per destare gli adulti dalla loro distrazione, per catturarne l’attenzione magari attraverso la preoccupazione.

Le campagne sull’uso consapevole della tecnologia e dei social sono destinate a rimanere infruttuose se non si allerta anche una diversa e più efficace sensibilità: quella utile a comprendere che la necessità di sorveglianza che tanto si reclama dovrebbe forse essere meno poliziesca e più affettiva.

Vale per tutti gli educatori, per tutti gli insegnanti e per i genitori di un qualunque Mauro.

P.S. Quando qualche giorno dopo ho chiesto a Mauro a bruciapelo se si fosse pizzicato, è innanzitutto rimasto sorpreso che una boomer come me conoscesse quella pratica; poi ha ammesso di aver voluto provare per curiosità e di essersene subito pentito. Ma questo non mi ha affatto rassicurato.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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