26 novembre 2022
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26 novembre 2022

La nemesi del silenzio

Autore: Ester Annetta
Le Olimpiadi di Berlino del 1936 furono le più politiche della storia dello sport.

Miliardi di marchi erano stati impiegati per la loro organizzazione (che prevedeva tra l’altro la ristrutturazione di stadi e palazzi), nell’intento di renderle un perfetto strumento di propaganda, un veicolo di celebrazione del regime nazista.

Allo stesso modo, tantissimo era stato investito nella preparazione degli atleti tedeschi, poiché il loro successo doveva servire a confermare la superiorità della razza ariana.

Il tutto in un contesto in cui Hitler e il suo Reich avevano già dato dimostrazione di essere una dittatura illiberale e antisemita, tanto che diversi Stati avevano ipotizzato un boicottaggio delle Olimpiadi, anche se poi di fatto nulla avvenne.

Tuttavia qualcosa andò diversamente, tanto – anzi – da assegnare, in parte, a quell’evento designato alla glorificazione del regime nazista i connotati di una vera e propria sconfitta. Accadde quando Jesse Owens, giovane atleta afro-americano dell’Alabama, proprio sotto gli occhi di un imbarazzatissimo Führer vinse ben quattro ori olimpici (100 metri, 200 metri, 4X100 metri e salto in lungo), umiliando – suo malgrado – la razza ariana, ma dando anche una severa lezione agli Stati Uniti, dove la segregazione razziale era ancora una pesante regola.
Il tutto nel più totale e discreto silenzio, senza sottolineature, senza clamore.

Diversi anni dopo, nel 1968, fu sempre un’Olimpiade – quella di Città del Messico - il cotesto in cui si compì un gesto davvero eclatante, divenuto il simbolo di una potente e silenziosa protesta. Erano in atto da qualche mese manifestazioni - animate soprattutto da studenti - contro il governo autoritario del Partito Rivoluzionario Istituzionale, al quale si addebitava la responsabilità delle drammatiche disuguaglianze sociali nel Paese.

Il 2 ottobre oltre diecimila tra studenti e semplici cittadini si erano riuniti nella Piazza delle Tre Culture, nel quartiere popolare di Tlatelolco, per dare vita a una nuova manifestazione assolutamente pacifica (come sempre), quando improvvisamente vennero mitragliati, da terra e dal cielo. Le vittime, taciute per anni, furono oltre trecento.

Dieci giorni dopo fu dato il via alle Olimpiadi e fu allora che due atleti, due velocisti – ancora una volta di colore - compirono un magnifico gesto di disobbedienza civile, Al momento di salire sul podio dove sarebbero stati premiati per essersi qualificati al primo e secondo posto nella finale dei 200 metri, Tommie Smith e John Carlos si presentarono scalzi, reggendo ciascuno in mano una sola scarpa. Ognuno dei due indossava un guanto nero, e quando, ricevute le medaglie, partirono le prime note dell’inno nazionale statunitense, si voltarono verso la bandiera americana, chinarono la testa e sollevarono il pugno chiuso guantato. Due semplici gesti, due simboli rivoluzionari: i piedi scalzi a simboleggiare la povertà degli afroamericani, il pugno chiuso a significare l’unità dell’America nera. In silenzio.

Cambiano i tempi, cambiano gli scenari ma contese, segregazioni, autoritarismi, dittature restano; e, accanto ai conflitti aperti ed alle repressioni, i gesti di ribellione silenziosa, quelli che più di tutti, forse, accusano e denunciano, catturando l’attenzione dell’opinione pubblica e dei canali di comunicazione, restano un efficace strumento per dar voce al dissenso.

E, ancora una volta, il contesto sportivo diventa uno dei palchi privilegiati su cui esprimerlo.

Accade così che gli incontri dei mondiali di calcio in Qatar diventano il veicolo per contestare “nuovi padroni”.

La ‘voce del popolo’ iraniano ‘urla’ fortissimo la sua protesta contro il regime che lo opprime attraverso il silenzio della sua squadra nazionale, che rimane muta al momento di eseguire l’inno nazionale prima dell’incontro con l’Inghilterra, sostenuta da una parte della propria tifoseria che mostra cartelli con le scritte "Freedom for Iran" e "Woman Life Freedom".

I calciatori della squadra tedesca, due giorni dopo, prima di affrontare il Giappone, si tappano la bocca con la mano al momento dello scatto della foto ufficiale, a significare l’imbavagliamento imposto dalla FIFA col suo divieto di indossare la fascia One Love per reclamare i diritti della comunità LGBTQ e imporre il ‘No discrimination’.

Un gesto probabilmente nemmeno programmato, ma deciso sul momento dopo che, all’ingresso in campo delle squadre, il guardalinee è andato a verificare che la fascia indossata dal capitano della squadra tedesca non fosse di quelle proibite.

Il tutto mentre le telecamere guardano deliberatamente altrove, pure nel momento in cui si scatta la foto alla squadra: troppo umiliante mostrare al mondo intero quella immediata e libera accusa; clamorosa nonostante il suo totale mutismo.

Meglio allora incassare il colpo e restare a propria volta in silenzio.

Ma un silenzio di vergogna stavolta.

Si spera.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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