Malgrado gli sforzi, le leggi, gli sgravi e le promesse, l’Italia resta un Paese a doppia velocità, con sacche di popolazione costretta a subire situazioni che stridono con l’immagine di una Nazione orgogliosamente inserita nella classifica delle più grandi potenze mondiali.
Da queste parti, ben 4milioni e 203 mila persone rappresentano il bacino dei lavoratori con contratto part-time. E non ci sarebbe nulla di male, se non fosse che mentre per qualcuno dedicare meno tempo al lavoro rappresenta una precisa scelta di vita, per molti altri - il 56,2% - è invece figlio dell’assoluta impossibilità di poter scegliere se lavorare mezza giornata o una intera. Un triste prendere o lasciare che nello slang economico-sociale viene definito “part-time involontario”.
È il quadro desolante mostrato dal report “Disuguaglianze e Diversità”, presentato nella Sala Zuccari del Senato, che come spesso accade da queste parti quando le stime puntano al ribasso, raggiunge il massimo delle percentuali fra le donne, con il 16,5% costrette al part-time contro il 5,6% degli uomini.
Una foto panoramica del fenomeno, intitolata “Da conciliazione a costrizione: il part-time in Italia non è una scelta. Proposte per l’equità di genere e la qualità del lavoro”, che oltre ad illustrare la situazione si lancia in qualche consiglio per invertire la rotta, chiudendosi idealmente con le interviste a cinque lavoratrici part-time che hanno preferito rimanere anonime, per timore di perdere anche il poco che hanno.
Dal report emerge che le donne sono le vittime sacrificali del fenomeno sotto ogni tipo di profilo, socio-demografico, territoriale, di tipologia contrattuale o di settore. Ma con una scala in discesa di penalizzazioni che ad ogni gradino tocca categorie sociali spesso senza molta possibilità di scelta. Da chi ha un impiego nelle professioni non qualificate (il 38,3% delle donne e il 14,2% gli uomini), alle giovani donne di età compresa fra i 15 ed i 34 anni, per il 21% costrette ad accettare contratti part-time, per poi scivolare via via ancora più in basso toccando chi vive nel Mezzogiorno, chi può contare su titoli di studio bassi e per finire gli stranieri.
Un paradosso tutto italiano di abuso del part-time confermato anche dai dati “Eurostat”: fino al 2022, nel ricorso ai contratti a tempo ridotto l’Italia si avvicinava al livello europeo, con il nostro 18,2% assai vicino alla media del Vecchio continente, ferma al 18,5%. Ma il dato peggiora quando il part-time diventa invece involontario, capitolo in cui il nostro Paese svetta con il 56,2% a fronte di un 19,7% della media europea.
A suggellare il fenomeno ci pensano anche i dati Istat sull’andamento dei contratti attivati nel primo semestre 2022, che registrano una confortante crescita del lavoro femminile, ma fortemente segnato dalla precarietà e la debolezza rappresentata dai contratti a tempo parziale. Nel primo semestre del 2022 risultano attivati 4.269.179 contratti, ma di questi solo il 41,5% è riferito a donne, e per di più con il 35,6% nella formula part-time.
“Ormai è noto che sempre più lavoro è precario e mal retribuito, e non è sufficiente a uscire da una condizione di povertà. In questo quadro anche il part-time da strumento di conciliazione di vita e di lavoro, rischia di diventare una forma di ulteriore precarizzazione, soprattutto quando viene imposto e non è una scelta del lavoratore e in particolare della lavoratrice. Uno dei segni più evidenti di come abbiamo affrontato la sfida della globalizzazione mortificando il lavoro, in particolare quello delle donne”, hanno commentato Fabrizio Barca e Andrea Morniroli, co-coordinatori del Forum Disuguaglianze e Diversità.
In base all’analisi dei dati, il fenomeno si spiega con l’esigenza di aziende e imprese di contenere i costi, favorito da “interventi normativi che hanno favorito la flessibilizzazione del lavoro” come il Jobs Act, dotato di “clausole elastiche introdotte a ‘corredo’ del part-time, come il lavoro supplementare e straordinario che permettono di aumentare e diminuire l’orario trasformandolo di fatto in full time in presenza di picchi di lavoro”.
Tre le possibili soluzioni indicate dal report la contrattazione, associando il part-time al tempo indeterminato, migliorando gli strumenti per la tutela contrattuale con contributi previdenziali più costosi per il part-time. Secondo, disincentivare le forme involontarie di part-time attraverso un sistema di denuncia per il lavoratore e al tempo stesso costruire una politica di incentivazione per trasformare i contratti da part a full time. Per finire con l’aumento dei controlli, che in base ad una raccomandazione europea chiede l’aumento del 20% degli ispettori dislocati sul territorio.
Come accennato, il report che fotografa l’anomalia del part-time involontario si chiude con l’intervista a cinque lavoratrici che hanno scelto di raccontare la propria esperienza in forma anonima. Sono storie di vita vissuta, con alcune che hanno raccontato di “aver tenuto duro” passando da contratti che prevedevano 6-7 ore ad altri che arrivavano a 17,5 ore a settimana, altre ancora di aver dovuto accettare il part-time per conciliare famiglia e lavoro o perché attratte da un contratto a tempo indeterminato, ma per tutte una scelta che si è trasformata in una trappola “senza la possibilità di conversione in un full-time”.