29 gennaio 2025

L’Italia non è un Paese per giovani (e per donne)

Con altre parole e soprattutto cifre, lo racconta un report dell’Istat, secondo cui le retribuzioni sono sempre più vittime del gender gay gap, che ormai ha raggiunto il 30% in meno. Rivista anche a 8,9 euro l’ora la soglia oraria di retribuzione minima della povertà

Autore: Germano Longo
Sempre più impegnati, eppure sempre più poveri. Detto così sembrerebbe quasi il titolo di un film, peccato sia la fotografia di una realtà con tanto di sigillo di garanzia dell’Istat: in Italia, ogni giorno, un milione e 255 mila persone si alzano e vanno al lavoro con la certezza di restare nel cerchio della povertà.

Un popolo fatto da 618 mila donne e 637 mila uomini, che equivale al 10,7% dei dipendenti di aziende in settori come industria e servizi. Sono le cifre impietose del più recente report Istat sulle retribuzioni, una ricerca a cadenza quadriennale che, ad ogni nuovo aggiornamento, peggiora addirittura, crescendo in questo caso dal 9,8% del 2018 al 10,7% attuale. A salire è anche il livello di retribuzione oraria sotto il quale si entra nello spettro della povertà, passato da 8,5 a 8,9 euro all’ora, che significa sfiorare in modo quasi impercettibile i 9 euro all’ora di cui in Italia si è discusso per mesi.

Neanche a dirlo, ma anche fra i poveri c’è chi se la passa peggio di altri, e come sempre a svettare in questo sono le donne con il 12,2% (618 mila) contro il 9,6% degli uomini (637 mila). In aggiunta, come fosse un’ulteriore aggravante, i giovani under 29: il 23,6% del totale, quasi uno su quattro. E proseguendo la situazione peggiora fra quanti hanno titoli di studio inferiori al diploma: i poveri sono il 18%, circa 480 mila, mentre nelle attività commerciali e nei servizi i dipendenti in povertà sono il 17,5%, circa 251 mila. A emergere con chiarezza è un dato: gli stipendi più bassi e i contratti part-time si annidano fra chi ha la sfortuna – si fa per dire – di essere donna o, in alternativa, giovane e comunque con poca istruzione.

Lavorando per meno ore o con un contratto precario, la retribuzione oraria scende: chi ha un part-time viene pagato per la stessa ora di lavoro il 30,6% in meno di un full-time, mentre chi ha un contratto a tempo determinato riceve il 25% in meno: 12,9 euro contro 17,1 di un contratto a tempo indeterminato.

Cifre e percentuali allucinanti, degne di un Paese del terzo mondo, al pari del famigerato e imbattibile “gender pay gap”, la differenza salariale a parità di tutte le altre condizioni (orario, carriera, contratto) che esiste e persiste imperterrita fra un uomo e una donna. Mediamente, le donne devono accontentarsi del 5,6% in meno per ogni ora di lavoro: 15,9 euro contro 16,8 euro dei maschi, percentuale che sale al 15,9% nel privato e si contiene al 5,2% nel pubblico.

“I dati confermano la realtà di un mercato del lavoro con troppe sacche di sfruttamento e bassi salari. Non basta non volerne parlare, come fa la destra, per nascondere la necessità di una tutela di base, come quella offerta dal salario minimo – commenta Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro nella segreteria nazionale del Pd – non basta fingere che la precarietà non sia più un problema quando i dati ci dicono che chi la subisce è penalizzato due volte: meno ore retribuite e una retribuzione oraria inferiore di ben un quarto rispetto a chi lavora a tempo indeterminato. E che chi lavora part-time ha una retribuzione oraria inferiore di più del 30% di chi lavora a tempo pieno”.

La differenza generazionale è al centro di uno studio realizzato da “Mercer” (società del gruppo Marsh McLennan), la “Total Remuneration Survey 2024”, che ha analizzato i trend retributivi dello scorso anno per 2.700 ruoli in quasi 700 aziende e che relega i neo-laureati italiani al fondo della classifica UE quando si parla di stipendi. Nonostante un aumento del 5,4% rispetto al 2021, le retribuzioni in entrata sono le più basse dopo Polonia e Spagna, lontanissime dai livelli di Svizzera, Germania e Austria.
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