Sempre più impegnati, eppure sempre più poveri. Detto così sembrerebbe quasi il titolo di un film, peccato sia la fotografia di una realtà con tanto di sigillo di garanzia dell’Istat: in Italia, ogni giorno, un milione e 255 mila persone si alzano e vanno al lavoro con la certezza di restare nel cerchio della povertà.
Un popolo fatto da 618 mila donne e 637 mila uomini, che equivale al 10,7% dei dipendenti di aziende in settori come industria e servizi. Sono le cifre impietose del più recente report Istat sulle retribuzioni, una ricerca a cadenza quadriennale che, ad ogni nuovo aggiornamento, peggiora addirittura, crescendo in questo caso dal 9,8% del 2018 al 10,7% attuale. A salire è anche il livello di retribuzione oraria sotto il quale si entra nello spettro della povertà, passato da 8,5 a 8,9 euro all’ora, che significa sfiorare in modo quasi impercettibile i 9 euro all’ora di cui in Italia si è discusso per mesi.
Neanche a dirlo, ma anche fra i poveri c’è chi se la passa peggio di altri, e come sempre a svettare in questo sono le donne con il 12,2% (618 mila) contro il 9,6% degli uomini (637 mila). In aggiunta, come fosse un’ulteriore aggravante, i giovani under 29: il 23,6% del totale, quasi uno su quattro. E proseguendo la situazione peggiora fra quanti hanno titoli di studio inferiori al diploma: i poveri sono il 18%, circa 480 mila, mentre nelle attività commerciali e nei servizi i dipendenti in povertà sono il 17,5%, circa 251 mila. A emergere con chiarezza è un dato: gli stipendi più bassi e i contratti part-time si annidano fra chi ha la sfortuna – si fa per dire – di essere donna o, in alternativa, giovane e comunque con poca istruzione.
Lavorando per meno ore o con un contratto precario, la retribuzione oraria scende: chi ha un part-time viene pagato per la stessa ora di lavoro il 30,6% in meno di un full-time, mentre chi ha un contratto a tempo determinato riceve il 25% in meno: 12,9 euro contro 17,1 di un contratto a tempo indeterminato.
Cifre e percentuali allucinanti, degne di un Paese del terzo mondo, al pari del famigerato e imbattibile “gender pay gap”, la differenza salariale a parità di tutte le altre condizioni (orario, carriera, contratto) che esiste e persiste imperterrita fra un uomo e una donna. Mediamente, le donne devono accontentarsi del 5,6% in meno per ogni ora di lavoro: 15,9 euro contro 16,8 euro dei maschi, percentuale che sale al 15,9% nel privato e si contiene al 5,2% nel pubblico.
“I dati confermano la realtà di un mercato del lavoro con troppe sacche di sfruttamento e bassi salari. Non basta non volerne parlare, come fa la destra, per nascondere la necessità di una tutela di base, come quella offerta dal salario minimo – commenta Maria Cecilia Guerra, responsabile Lavoro nella segreteria nazionale del Pd – non basta fingere che la precarietà non sia più un problema quando i dati ci dicono che chi la subisce è penalizzato due volte: meno ore retribuite e una retribuzione oraria inferiore di ben un quarto rispetto a chi lavora a tempo indeterminato. E che chi lavora part-time ha una retribuzione oraria inferiore di più del 30% di chi lavora a tempo pieno”.
La differenza generazionale è al centro di uno studio realizzato da “Mercer” (società del gruppo Marsh McLennan), la “Total Remuneration Survey 2024”, che ha analizzato i trend retributivi dello scorso anno per 2.700 ruoli in quasi 700 aziende e che relega i neo-laureati italiani al fondo della classifica UE quando si parla di stipendi. Nonostante un aumento del 5,4% rispetto al 2021, le retribuzioni in entrata sono le più basse dopo Polonia e Spagna, lontanissime dai livelli di Svizzera, Germania e Austria.