Come una ormai consolidata ricorrenza, nei primi giorni di dicembre molte scuole superiori della capitale (ma non solo) vengono occupate.
Ferma restando l’illegittimità del mezzo, in genere la protesta poggia su motivazioni ben esplicitate (e talvolta anche condivisibili!), che si reiterano ogni anno senza trovare soluzione: la fatiscenza delle strutture scolastiche; la mancanza di laboratori e strumenti; i programmi “antichi” che non vengono aggiornati (quello di storia in particolare, in stallo ancora sulla Seconda Guerra Mondiale o poco più in là) e così via.
Ma ad averne esatta cognizione (e a strumentalizzarle) è perlopiù la minoranza estremista degli organizzatori nonché i Dirigenti scolastici con i quali inizia subito il consueto duetto delle trattative per ridurre i giorni di interruzione dell’attività didattica. La maggior parte degli studenti, invece – specie quelli del primo anno – spesso non ha affatto idea di quali siano le ragioni del contendere e le richieste reclamate dai loro portavoce; si limitano a bearsi di quell’inaspettata vacanza guardandosi bene dal prendere parte attiva alla protesta, preferendo rimanere a poltrire al caldo del proprio letto piuttosto che sfidare il gelo notturno nelle aule piantonate.
Come sempre, poi, lo scenario che si presenta quando l’occupazione viene smantellata è quello vandalico della devastazione: danni – anche gravi – agli edifici ed ai materiali (gli stessi di cui si denuncia il degrado e l’inadeguatezza!) nonché veri e propri sfregi della cui responsabilità gli occupanti tendono a sgravarsi incolpando “gli esterni” che regolarmente vengono ospitati dagli studenti durante la loro permanenza negli istituti occupati.
Nella mia scuola, per esempio, la conta dei danni ha totalizzato: una porta frangifiamme divelta; un discreto numero di barriere di plexiglass frantumate; diverse scritte sui muri e interi barattoli di vernice versati su pavimenti e scale; librerie rovesciate e decine di libri spaginati o “impregnati di liquido non identificato” – come recita la circolare informativa - ma di inequivocabile origine organica.
Quel che è paradossale è che tutto ciò avvenga proprio in quel contesto in cui la recente Legge n. 92 del 20 agosto 2019, richiamando una vecchia pratica, ha reintrodotto l’obbligo dell'insegnamento trasversale dell'educazione civica, con la previsione di iniziative di sensibilizzazione alla cittadinanza responsabile.
Viceversa, è soltanto una coincidenza che capiti pure in concomitanza di un evento sportivo mondiale che – per contrasto ed ironia della sorte – diventa a sua volta veicolo di una lezione di educazione civica, ma molto più vera e concreta di quella affidata agli insegnamenti teorici.
È stato inevitabile, difatti, fare il raffronto tra l’irresponsabilità e l’inciviltà dei nostri adolescenti - che pare non perdano occasione per prodursi in bravate deplorevoli mirando ad ottenere non si sa quale plauso - e la compostezza, la disciplina e l’assoluta civiltà di calciatori e tifosi della squadra del Giappone, che, a detta di tutti, sono stati proclamati i vincitori simbolici dei Mondiali di calcio in corso.
“Noi giapponesi non lasciamo mai rifiuti in giro, rispettiamo il posto dove andiamo” hanno dichiarato i tifosi giapponesi alla fine della partita ad un loro omologo qatariota che assisteva esterrefatto al loro brulichio tra gli spalti, intenti a ripulirli d’ogni tipo di rifiuti (anche non i propri) alla fine della partita.
Il video che riprende la scena ha fatto il giro del web insieme alle immagini degli spogliatoi tirati a lucido (forse anche meglio di quanto non farebbero gli inservienti addetti) dai calciatori della squadra nipponica: un paio di confezioni di acqua non ancora aperte e tutti i teli ripiegati e riposti in ordine ai piedi del tavolo centrale, sul quale erano state allineate, altrettanto in ordine, le confezioni di cibo da asporto rimaste integre.
E poi c’è stato il più soave e nobile dei gesti di rispetto: quello che, più del nome (impronunciabile), ha consegnato alla memoria collettiva il ricordo del tecnico della squadra giapponese, Hajime Moriyasu. Dopo la sconfitta della sua squadra ai rigori, ai quarti di finale, l’ha riunita consolando ad uno ad uno tutti i calciatori e battendosi il petto. Poi si è diretto verso gli spalti e, rivolgendosi ai suoi connazionali tifosi, si è prostrato in un profondo inchino, rimanendo in quella posizione per lunghissimi secondi, come se stesse scusandosi per non avercela fatta e stesse ringraziando tutti per quel composto e disciplinato sostegno alla squadra che li aveva portati fin laggiù, ad inseguire il sogno di una vittoria di mondiale che mai era apparsa tanto vicino.
La più grande ed efficace lezione di civiltà l’ha dunque regalata al mondo intero – non solo quello sportivo - una partita di calcio. Segno che quando certi valori fondamentali sono radicati nella cultura di un popolo, nemmeno sono necessari insegnamenti e norme specifiche per allenarvisi.
Disciplina, ordine, rispetto dovrebbero essere connaturati ad ogni individuo e ad ogni civiltà.
Se così fosse, potrebbe persino eliminarsi sul nascere il bisogno di rivendicazioni. Piccole o grandi che siano.
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