La piena di Sanremo travolge, monopolizzando pagine e pagine – reali e virtuali – di giornali e notiziari. La sua potenza è tale da relegare altre notizie in piccole e nascoste anse stagnanti, in cui si spengono – fugaci e fiochi - l’eco della grandezza di una amatissima Monica ed il ricordo di quel Tito che con le sue parole ci accompagnò sulla Luna.
Ma tant’è e persino a chi - come me – non ama seguirne spasmodicamente tutte le fasi, pare necessaria una sosta in quell’arena in cui a scontrarsi non sono solo doti canore ed artistiche ma soprattutto critiche e polemiche.
Perlopiù si tratta di quelle consuete, riadattate di anno in anno al messaggio che ciascun protagonista (conduttore, co-conduttrice, ospite, concorrente che sia), con la propria performance, deliberatamente lancia come un amo nell’universo liquido d’una platea di diversa caratura, mirando proprio ad adescarne un giudizio che pare più improntato sulla formula del “purché se ne parli” che non sull’effettiva portata del consenso o del disprezzo.
Non fa eccezione questa edizione, che dello stesso nutrimento è destinata ad alimentarsi per l’intero arco della sua lunga settimana di durata.
La mia “sosta” cade però all’indomani delle prime due serate, che ancora non so, dunque, se saranno state quelle che avranno suscitato maggior clamore. A me sono tuttavia bastati alcuni momenti catturati durante quei due primi “episodi” per giungere a comporre una quadro che, più che un giudizio diretto su personaggi e performance vuol essere un estratto delle lezioni che – con maggiore o minore consapevolezza – essi hanno trasmesso.
Ci sono state lezioni di indipendenza, come quella minuscola ma preziosa di un Blanco che ha disdegnato l’ingombro d’un prezioso mantello firmato Valentino per dar libero spazio ai movimenti del suo corpo trainato dalla potenza della sua voce; e quella, immensa, d’una tenace e ancora valida signora ultraottantenne, Iva Zanicchi, la cui presenza (a differenza d’un’altra IVA) non ha pesato affatto, non è stata fastidiosa: la sua voce, anzi, ha tirato dritto lungo la linea della melodia senza alcuna incrinatura o stonatura, meno brillante d’un tempo, si, ma ancora solida ed efficace, a dimostrazione che il talento non invecchia.
Su tutte, però, quelle che ritengo siano prevalse sono state le lezione di stile, tradottesi a tratti persino in lezioni di coraggio.
La prima è stata quella di Achille Lauro. Non la sua, intendiamoci: senza volerlo necessariamente etichettare come blasfemo (come pure è stato fatto), è chiaro infatti che il “battesimo” con cui ha concluso la sua esibizione altro non era che una delle tante provocazioni che corredano il suo vasto repertorio trasgressivo. E’ invece dalla reazione – inattesa e sorprendente – del massimo organo di stampa vaticana che è arrivata la lezione di stile: chiamato in causa da Fiorello che, dopo la performance di Lauro, aveva evidentemente subodorato la possibilità d’una sentita rimostranza, l’Osservatore, con garbo e sottigliezza, si è limitato ad affidare ad una semplice nota sul suo sito web un fulminante commento d’una ironia elegante e pungente, con cui, potrebbe dirsi, la trasgressione del divo è stata messa al tappeto da quella della divinità: “volendo essere a tutti i costi trasgressivo, il cantante si è rifatto all’immaginario cattolico. Niente di nuovo. Non c’è stato nella storia un messaggio più trasgressivo di quello del Vangelo”. Fine della replica.
C’è stata poi quella di Lorena Cesarini. La delicata e minuta co-conduttrice del festival si è soffermata sul razzismo con un lungo monologo che ha centrato l’obiettivo non certo perché fosse stato abilmente preparato e montato, tutt’altro. Non era uno dei consueti discorsi retorici il suo, ma la voce diretta, spontanea e non costruita del suo sentire, di quella ferita che per la prima volta in tanti anni ha sentito inflitta su di sé e non narrata da altri. E l’ha fatto con una semplicità estrema, che ne ha amplificato il messaggio nonostante l’emozione tentasse di piegare la sua voce e di rubarle le parole. Perciò le ha prese in prestito da un libro, caricandole però d’una intensità e di una forza tutte sue, vere, pesanti, con cui le ha rivolte in faccia a chi, invece, indirizzandole insulti al riparo d’uno schermo, la faccia non ha avuto il coraggio di mettercela.
Infine c’è stato lui, Checco Zalone. I suoi, come sempre, sono stati interventi (il primo, in particolare) ai limiti della misura, in equilibrio millimetrico sulla linea che separa ciò che può far scalpore da ciò che può pungere la coscienza. Il genio di Zalone è infatti tutto qui: nel suo saper caricare di significati “altri” ciò che all’apparenza può sembrare esso stesso un insulto, una caricatura, un oltraggio, riuscendo così a sbeffeggiare l’ipocrisia che troppo spesso veste condotte e giudizi. Ancora una volta il suo fare è stato diretto, schietto, non mediato da filtri e sufficientemente dissacratorio da provocare anche un po’ di indignazione. Ma tutto questo è stato anche ciò che, paradossalmente e come di regola accade, ha finito per rendere la sua comicità raffinata, a dispetto dei doppi sensi e del lessico talvolta greve.
A dimostrazione che anche l’irriverenza è uno stile. Talvolta perfino superbo.