L’ultimo filmato che la ritrae viva è del giorno stesso in cui la sua esistenza è cessata.
Corre felice tra le braccia della mamma, come fanno tutti i bambini quando li si va a prendere all’asilo, e non perché ci siano rimasti malvolentieri – tutt’altro! – ma perché avvertono la fine di quel senso di separazione che per gran parte della giornata li ha tenuti lontano dal loro principale punto di riferimento e sicurezza.
Elena è come tutti gli altri bambini della sua età – 5 anni! – e le braccia tese di mamma Martina, che l’attende accovacciata per mettersi al pari della sua altezza, sono il porto sicuro dentro cui sentirsi amata e coccolata.
Ancora non lo sa - e forse è un bene che l’innocenza dei suoi pochi anni non la renda consapevole del male – ma solo qualche ora più tardi quell’abbraccio si trasformerà in una trappola, in un legaccio di morte. Anzi, per la pace della sua anima, c’è da sperare che nemmeno un attimo prima della fine abbia compreso l’inganno di quelle mani che d’improvviso hanno cessato di dispensare carezze per impugnare un coltello.
Passa appena un giorno ed il suo corpicino viene ritrovato in un campo incolto poco lontano da casa. È la madre stessa a rivelare che è lì, dopo che il castello di bugie che ha architettato – apparso sin dal principio poco credibile – è crollato.
Si, Elena l’ha uccisa lei, ma non sa spiegare perché.
Si avanzano le ipotesi, tra cui quella che sembra essere più attendibile è la gelosia, ma non quella per il proprio uomo: il legame con lui – breve e fallace come solo può essere tra due ragazzi di vent’anni – è finito da un pezzo. Piuttosto è quella per la sua nuova compagna, perché Martina teme che Elena – sangue del suo sangue, testimone d’un amore che è stato – possa attaccarsi a quell’estranea e considerarla madre al pari di lei.
Può funzionare, si, può essere un valido movente. Resta il fatto che Martina però non ne accetta il suggerimento, continuando anzi a parlare di una forza inspiegabile e di qualcosa che si è impossessato di lei ed ha pilotato le sue azioni.
È qui allora che va ricercata la chiave per capire, senza tuttavia aver la pretesa anche di giustificare.
Cosa può spingere una madre a sopprimere la sua creatura, a ripiegare sulla negazione del suo privilegio di dare la vita, annientando di conseguenza anche se stessa?
C’è della follia, indubbiamente. Ma c’è anche un profondo senso di disagio, perlopiù inconfessato, che agisce subdolamente, alterando equilibrio e personalità fino a sfociare in una pericolosa bipolarità, quella “sfumatura dell’essere” che si traduce in alterità, un altro-da-se’ capace di gesti che il sé originale non sarebbe mai capace di compiere.
E questo spiegherebbe anche la successiva confusione, l’incapacità di riconoscersi autori di quanto commesso e, addirittura, il meccanismo della rimozione.
Purtroppo i segnali d’un tale disagio non sono mai abbastanza evidenti o eloquenti.
Qualcuno che avrebbe potuto coglierli ammetterà solo dopo che un epilogo drammatico c’è stato di aver notato stranezze, condotte particolari, finendo addirittura per assegnare significati nuovi a elementi che ha avuto sempre sotto gli occhi e non ha mai considerato.
Sempre quand’è troppo tardi. Senza mai la capacità – quando sarebbe stato ancora in tempo - di guardare oltre l’apparenza, di dare una diversa interpretazione ad atteggiamenti giudicati approssimativamente perché falsati da una ostinata miopia: “autoritario ed aristocratico” ha definito sua suocera il comportamento di Martina, arrivando anche a dichiarare – a vantaggio delle telecamere – che la ragazza “è sempre stata un po’ strana”.
Un figlicidio è l’atto anti-natura per eccellenza, soprattutto se a commetterlo è una madre più che un padre. Perciò non può mai essere fine a se stesso.
C’è sempre un “oltre” – implicito, ingestibile e ineludibile – che ne innesca il meccanismo.
E non è universale, ma incastonato nella peculiarità d’ogni singola storia.
Il solo tratto costante è il bisogno “salvifico” – il proprio o dello stesso bambino - di liberarsi di lui: perché è malato e così smetterà di soffrire; perché non era desiderato; per ripicca nei confronti d’un padre che se n’è andato; perché è un incomodo che impedisce la realizzazione di sé e della propria individualità.
Non sono scusanti, ma sono motivi: sgraziati, aberranti, incondivisibili, sbagliati, come sbagliate sono le madri che ne diventano preda (o vittime?), ma purtroppo concreti e sufficienti a guidare – se non la mente – il braccio di quelle che strangolano, premono un grilletto, impugnano un coltello.
Ma, come sempre, tutto questo passa in secondo piano; il fermarsi a riflettere e cercare di capire ragioni, anche quando è chiaro che di solide ed efficaci non ve ne siano, finisce sempre per cedere il passo a quella becera e scandalosa priorità che è l’offerta alla piazza mediatica delle diverse angolazioni di ripresa d’un video “scoop” quanto mai irrispettoso della dignità e del dolore.
Il piccolo corpo di Elena viene portato via da un’auto, cui il nonno si aggrappa mantenendone per un po’ il passo pur di non staccarsi dalla sua nipotina.
La sequenza dura due o tre secondi appena; il resto del video è dell’ignobile calca di microfoni, telecamere e telefonini sollevati in alto ad inseguire la scena, perché è l’essere lì in quel momento, da spettatore autentico e divulgatore privilegiato, ciò che più conta.
Vergogniamoci.