Il titolo di una nota commedia inglese d’inizio anni ’70 ben si presta ad essere parafrasato per introdurre un argomento che – restando, tra l’altro, pure in linea con il dibattito sorto in questi giorni attorno all’art. 41 bis – ripropone la questione della revisione di alcune norme dell’Ordinamento Penitenziario italiano.
Stavolta a finire sotto attenzione è l’art. 18, che, nel consentire espressamente a detenuti ed internati di “avere colloqui e corrispondenza con congiunti e altre persone, anche al fine di compiere atti giuridici”, non permette invece che gli stessi - anche se non sottoposti al regime duro del 41 bis - abbiano momenti “intimi” con le proprie mogli, i propri mariti i propri fidanzati e compagni.
L’argomento già in passato aveva sollevato dibattiti e confronti, fino alla proposizione della questione di legittimità costituzionale, che, tuttavia, la Consulta aveva respinto con una pronuncia del 2012 (sentenza n. 301/2012).
Ora la questione si riaccende, forte di due recenti interventi.
Il primo è la sentenza n. 3035/2023 (risalente a settembre 2022 e pubblicata lo scorso 24 gennaio) con la quale la Corte di Cassazione - pur rigettando per manifesta infondatezza il ricorso presentato da un detenuto in regime di 41bis contro l’ordinanza del Tribunale di Sorveglianza di Milano che aveva respinto il reclamo avverso il diniego oppostogli dal Magistrato di Sorveglianza all’esecuzione di un incontro riservato con la moglie (a seguito di matrimonio celebrato in carcere) – ha tuttavia ampiamente argomentato la necessità di un intervento del legislatore di revisione della materia.
La Suprema Corte ha osservato infatti che il vigente quadro normativo esclude che le disposizioni in tema di colloqui visivi dei reclusi includano la tutela dell’affettività sessuale intesa come intimità fisica, in quanto tale non suscettibile di osservazione esterna. Le norme si limitano difatti a prevedere soltanto colloqui svolti “a vista” sotto il controllo del corpo di polizia penitenziaria.
Ha rilevato tuttavia la Corte che la necessità di una diversa regolamentazione – che non affidi al solo istituto dei permessi premio il soddisfacimento di una simile componente della vita relazionale – è di certo avvertita da tempo ed ha trovato considerazione nei principi espressi dalla legge delega di riforma dell’ordinamento penitenziario, ad oggi non ancora realizzata. L’art. 85 lettera n) della suddetta legge delega (n. 103/2017) prevede difatti testualmente il “riconoscimento del diritto all’affettività delle persone detenute e internate e disciplina delle condizioni generali per il suo esercizio”.
Il problema, per i giudici della Cassazione, merita ogni attenzione da parte del legislatore, anche alla luce delle indicazioni provenienti dalla Convenzione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, che ha tra l’altro portato un numero sempre crescente di Stati a riconoscere, in varie forme e con diversi limiti, il diritto dei detenuti ad una vita affettiva e sessuale intramuraria.
Ciò peraltro evidenzia la necessità che l’intervento del legislatore sia specifico e dettagliato, non potendosi limitare alla semplice eliminazione della vigente disposizione che prescrive il controllo visivo, essendo invece necessario definire precisamente durata, frequenza e misure organizzative adeguate ai suddetti “incontri”. Tanto più che si tratta di bilanciare due esigenze fortemente contrapposte, ossia il diritto alla sessualità da una parte e la necessità di tutelare l'ordine pubblico dall'altra.
Il secondo intervento è l’ordinanza n. 23/2023 del 14 dicembre 2022 (pubblicata lo scorso 12 gennaio) con cui il Tribunale di Sorveglianza di Spoleto - chiamato a decidere sul reclamo di un detenuto che lamentava di non poter svolgere nell’intimità colloqui con la compagna, presso l’istituto penitenziario di Terni dov’è recluso - ha sollevato questione di costituzionalità dell’art. 18 della legge penitenziaria, rispetto ad una pluralità di parametri, appunto nella parte in cui non prevede la possibilità per un detenuto, per il quale non si rappresentino particolari, ostative ragioni di sicurezza, di svolgere colloqui intimi, anche di tipo sessuale, con la partner, senza il controllo a vista della polizia penitenziaria.
Il giudice ha manifestato il dubbio che quel divieto possa essere contrario ai diritti sanciti dalla Costituzione in quanto “un’amputazione così radicale di un elemento costitutivo della personalità quale la dimensione sessuale dell’affettività finisce per configurare una forma di violenza fisica e morale sulla persona detenuta”.
La questione, dunque, è ora tornata nelle mani della Consulta, che dovrà pronunciarsi tenendo conto dei nuovi parametri indicati dal Magistrato.
L’auspicio è che stavolta la sua decisione sia un po’ più risoluta e coraggiosa rispetto a quella assunta dieci anni fa.
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