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smartphone - fobia

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Nomofobia

Autore: Ester Annetta
È uno dei tanti neologismi che ricorrentemente rimpolpano il nostro vocabolario.

Deriva dalla contrazione dell’espressione ‘No Mobile Phone Phobia’ ed indica la paura incontrollata di rimanere lontani, staccati, dalla connettività del telefono cellulare, con conseguente ansia di non aver accesso ai dati ed ai servizi che vi sono collegati.

Una vera e propria condizione patologica di dipendenza, insomma, talmente potente da comportare una serie di disturbi (vertigini, tremori, sudorazione, fino ad arrivare ad autentici attacchi di panico) e problemi comportamentali.

Tale condizione è particolarmente evidente laddove si associ ad un altrettanto incontrollata “dipendenza da social”: in questo caso il compulsivo controllo dei propri profili per verificare accessi, like, commenti agisce alla stregua di una dipendenza da sostanze, innescando il circuito della ricompensa (quello che Pavlov - massimo esponente del comportamentismo, cui si ispira la relativa teoria dell’apprendimento - studiando il riflesso condizionato, definì “rinforzo”. L’esperimento da lui condotto rilevò l’aumento dello stimolo salivare del cane quando sentiva un campanello dopo che aveva imparato ad associare a quel suono l’arrivo del cibo) che ripropone a sua volta la necessità di reiterare quello specifico comportamento. C’è infatti un picco di dopamina determinato dal senso di gratificazione che si sperimenta ogni volta che un beep sul telefonino annuncia una notifica oppure si constata che qualcuno ha visitato il proprio profilo social.

Il termine “nomofobia” è stato coniato in Inghilterra nel 2008, a seguito di uno studio commissionato dal governo britannico finalizzato a rilevare la correlazione tra lo sviluppo di disturbi dello spettro ansioso e l'iper-utilizzo di telefoni cellulari. Allora si era rilevato che, nel 53% circa dei casi, si sviluppavano elevati livelli di apprensione ed ansia quando si perdevano, si esauriva il credito o si scaricavano i cellulari e che approssimativamente il 58% degli uomini ed il 47% delle donne erano affetti da ansia da disconnessione.

Per quanto ci riguarda, un rapporto Eures dello scorso dicembre, realizzato in collaborazione con la Regione Lazio e il Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. ha rilevato che l’82% dei giovani italiani è a rischio dipendenza da smartphone.

Degli oltre 1.800 studenti intervistati, il 22% si colloca nell’area critica di 'alert addiction' – la fascia di “elevato rischio” in cui il rapporto patologico di dipendenza determina un’ampia gamma di sintomi comportamentali – mentre il 60% si trova in una fascia media dove, pur non rilevandosi situazioni di vero e proprio allarme, emerge comunque un ruolo dominante del cellulare in diversi spazi e luoghi del vivere quotidiano.

Tra le motivazioni addotte a giustificazione di un tale smodato uso del dispositivo si evidenziano: il bisogno di combattere la noia (46,9%); la possibilità di sentirsi parte di un gruppo e di essere accettati dagli altri (22,5%); l’esplicita dipendenza, ossia l’incapacità di privarsi del proprio dispositivo (18,2%).

Pur senza conoscerne le cifre, della portata del fenomeno siamo tutti abbastanza consapevoli. Nel nostro piccolo, anche noi adulti abbiamo una più o meno marcata fobia legata al possesso del cellulare che, nella maggior parte dei casi, si risolve in un disturbo ossessivo-compulsivo analogo a quello che ci fa controllare più volte se abbiamo chiuso la macchina o il gas o le finestre di casa quando usciamo.

Quello che tuttavia non torna è come sia possibile che non si riesca nemmeno a rispettare la cautela – che diventa, anzi, vera e propria regola di buon comportamento – di silenziare, quantomeno, il dispositivo da cui non ci si riesce a staccare quando ci si trova in contesti o situazioni in cui il trillo di una suoneria può risultare fastidioso se non addirittura imbarazzante.

Mi riferisco, nello specifico, all’episodio occorso al Teatro alla Scala di Milano qualche sera fa, durante la seconda replica del concerto di cori e sinfonie verdiane diretto da Riccardo Chailly.

Immaginiamo la scena: i gesti dell’orchestra, armoniosi almeno quanto la musica che sta producendo, seguono obbedienti la bacchetta del maestro. La platea, silenziosa e commossa, è avvolta dalle note, che non si fermano all’organo di senso ma penetrano fino all’anima.

È il momento di massima tensione, i climax dell’opera. Il coro intona: “Patria oppressa! il dolce nome/No, di madre aver non puoi/Or che tutta a figli tuoi/Sei conversa in un avel./D'orfanelli e di piangenti/Chi lo sposo e chi la prole/Al venir del nuovo Sole/S'alza un grido e fere il Ciel./A quel grido il Ciel risponde/Quasi voglia impietosito/Propagar per l'infinito/Patria oppressa, il tuo dolor./Suona a morto ognor la squilla,/Ma nessuno audace è tanto/Che pur doni un vano pianto/A chi soffre ed a chi muor.”

L’emozione è intensa, quasi palpabile. È come se tutto il pubblico trattenesse il fiato perché nemmeno un sibilo d’aria contamini la magnificenza di ciò che si sta svolgendo.

Ma all’improvviso irrompe una nota stonata, fuori contesto, che nulla ha a che fare con lo spartito.

È il trillo di un telefono che qualcuno in sala ha lasciato acceso, incurante delle raccomandazioni che una voce registrata avrà senz’altro ripetuto prima che lo spettacolo avesse inizio.

Come sempre accade anche a cinema, a teatro, in chiesa.

Il mite maestro - che può soprassedere a qualunque intemperanza ma non a ciò che ritiene sia un’offesa all’arte ed alla sua esecuzione - si ferma e, con aria grave, rivolto al disturbatore esclama: “Risponda pure, noi riprendiamo dopo”.

Si può essere dipendenti patologici, ossessionati, psicotici o anche soltanto distratti; ma credo che di fronte ad un richiamo così pungente nella sua eleganza, chiunque si vergognerebbe, comprenderebbe lo sproposito della propria condotta e si sentirebbe indotto a ripromettersi di imparare - quanto meno - a distinguere le circostanze, per risparmiarsi nuovi ed ulteriori imbarazzi futuri.

Ecco, allora: prendiamo tutti spunto dall’ironico invito del maestro Chailly per esercitarci alla misura delle cose, per svezzarci da dipendenze non essenziali e, soprattutto, per apprendere la lezione del rispetto: se “una telefonata allunga la vita” – come recitava uno spot di qualche anno fa – altrettanto, ed anzi meglio, possono fare superbe forme d’arte e di cultura, purché le si apprezzi e le si contempli con partecipazione prima ancora che con competenza, anziché assistervi solo per farne uno status symbol o sfoggiare l’abito buono.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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