Quando, il 5 agosto 1989, Nino Agostino venne freddato fuori dalla casa dei suoi genitori insieme a sua moglie, incinta del loro bambino, papà Vincenzo fece una promessa solenne: non avrebbe mai più tagliato la barba. L’avrebbe lasciata crescere per tutto il tempo che sarebbe occorso alla giustizia per trovare un responsabile ed un motivo all’assassinio di suo figlio, di sua nuora e del nipotino mai nato. Avrebbe inseguito la verità fino all’ultimo suo fiato, lasciando che quella sua barba, crescendo e imbiancandosi, divenisse il simbolo della battaglia che, incessantemente, avrebbe continuato a combattere.
Erano anni difficili; erano anni “malati”.
La ricerca di verità di papà Vincenzo continuava a rimbalzare contro il muro di gomma delle istituzioni, dove il cancro della mafia pareva che fosse riuscito ad insinuarsi. Forse Nino era un agente del Sisde sotto copertura ed aveva scoperto qualcosa che avrebbe potuto far deflagrare una “bomba” ben più potente di quella – su cui pare stesse indagando - che, poco più d’un mese prima, era rimasta inesplosa all’Addaura, accanto alla villa dove si trovavano il giudice Falcone e sua moglie.
Vincenzo non si è mai arreso, neppure quando al suo fianco non è rimasta più neanche Augusta, la sua compagna di vita e di dolore. E non poteva perciò mancare alle “celebrazioni” della cattura di Matteo Messina Denaro, l’ultimo padrino, il Re di Cosa Nostra.
Era lì, con tutto il peso dei suoi ottantacinque anni e la fatica di un’attesa che dura da oltre trenta; col macigno sul cuore d’un padre sopravvissuto a suo figlio, morto ammazzato davanti ai suoi occhi; con lo sguardo ancora vivo e attento di chi cerca risposte.
Ma non era lì per compiacimento. C’era per ricordare allo Stato i suoi doveri, l’impegno – niente affatto concluso – a ricercare la verità e fare giustizia.
"Ora si potrà fare luce sui delitti? Avere la verità che noi familiari delle vittime chiediamo da decenni? Si potranno scoprire le complicità e porre fine ai misteri, prendere chi comanda e porre la parola fine?”.
La sua voce si è levata al di sopra del clamore, degli applausi, dei flash dei fotografi. Ha tuonato come un monito, un sollecito a non adagiarsi sugli allori della vittoria ma ad andare oltre, a cercare ancora, perché quel capo imprendibile – che forse ha deciso di farsi prendere prima che lo facesse il male che lo sta divorando – forse non è l’ultimo.
“Non è finita finché non è finita” diceva il mio maestro di scherma davanti a qualche punto di svantaggio, durante un incontro: mai lasciar intendere all’avversario il timore della sconfitta, mai abbassare la guardia. Vale per chi sta vincendo e vale per chi sta perdendo.
Cosa Nostra non è finita, anche se ne è stato colpito un organo vitale. Nuove leve sono state formate, nuovi padrini ambiranno alla successione al suo vertice, come del resto fu per lo stesso Messina Denaro, divenuto erede di Riina che l’aveva “tenuto a battesimo”.
Quel capo, che pare racchiudere nel cognome la sintesi dei suoi ideali – territorio e ricchezza –, con ogni probabilità non è mai uscito dalla sua Sicilia e per i trent’anni della sua latitanza ha potuto contare sulla copertura d’una comunità fedele ed omertosa.
Forse allora bisogna cominciare proprio da qui: dallo scardinamento di queste forme di “affezionamento” malate ed incancrenite affinché possa infine proclamarsi un’autentica vittoria.
Sul loro dis-valore occorre che vadano chiamate a riflettere – nell’ambito di concreti percorsi di educazione civica e alla legalità - anche le nuove generazioni, lontanissime dagli anni dei complotti, degli omicidi e delle stragi; quelle che nulla sanno della fine di Giuseppe Di Matteo o che ricordano i nomi di Falcone e Borsellino solo perché hanno una scuola che è loro intitolata; quelle per cui Matteo Messina Denaro è l’individuo delle immagini dei TG: un uomo non più giovane, dimesso e malato la cui cattura non giustifica tanto tripudio e che quasi non ha senso arrestare a distanza di così tanti anni da ciò che ha commesso.
Ecco perché allora la battaglia per la verità e la giustizia non può mai considerarsi vinta; la loro ricerca deve diventare un bisogno universale, sentito con la stessa volontà e la stessa tenacia d’un padre coraggioso, che le insegue nonostante le gambe malferme; che le urla nonostante il fiato corto e la voce flebile.
Vincenzo per primo lo sa. Ed è perciò che, alla domanda insidiosa d’un giornalista che gli chiedeva se ora taglierà finalmente la barba, ha risposto con fermezza e decisione: “NO!”
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