11 luglio 2022

Non è un Paese per giovani

Autore: Rachele Pozzato
Vent’anni noti come il periodo della “grande moderazione”, fino alla crisi finanziaria del 2008, in cui la politica internazionale non si è molto curata delle questioni distributive. Singolare, considerato che l’assetto economico globale è stato il motore dei cambiamenti delle nostre società. Decenni – pochi, ma decisivi – che hanno visto il prodotto mondiale quasi triplicarsi, il volume del commercio quadruplicarsi, la popolazione arrivare a otto miliardi, il prodotto pro capite nei paesi in via di sviluppo aumentare del 140%, del 60% in quelli avanzati. Decenni che hanno visto anche dimezzarsi la mortalità infantile, mentre cresceva l’aspettativa di vita alla nascita, scendere da due miliardi a meno di 700 milioni il numero di persone in condizioni di povertà estrema, senza che più di 3 miliardi di nuovi nati vi rientrassero.

Non solo risvolti positivi - Il forte sviluppo delle aree meno avanzate ha portato a un assottigliarsi delle differenze tra i Paesi. Le disparità, però, sono aumentate nei singoli territori, internalizzate, soprattutto nei Paesi avanzati, dove si parla di “affanno della classe media” o di “immobilità sociale inter-generazionale”. Un così basso grado di mobilità poi, che non riguarda la sola distribuzione dei redditi – che peraltro si è andata riducendo anche a livello intra-generazionale, ossia lungo l’intera vita lavorativa –, ma anche il grado di istruzione, la qualità del lavoro e la salute. Motori di questi fenomeni, gli stessi dei grandi cambiamenti economici: globalizzazione e nuove tecnologie. La prima frenando la dinamica dei salari in seguito al decentramento produttivo verso i paesi a più basso costo di mano d’opera, mentre il progresso tecnologico ha spinto a una richiesta di lavoro più qualificato, a un calo della quota di reddito che va al lavoro dipendente, a un aumento del differenziale di salario tra le occupazioni più qualificate e quelle meno qualificate, insieme a una polarizzazione delle occupazioni. In sostanza, se il grado di istruzione e quindi l’offerta di lavoratori più qualificati sono cresciuti, la domanda di questi lavoratori è aumentata in molti Paesi avanzati ancora più rapidamente, contribuendo quindi ad accrescere almeno per il momento la disuguaglianza nella distribuzione dei redditi.

Giovani sempre meno ricchi - E il risultato più evidente e palpabile è che per la prima volta nella storia i giovani sono meno ricchi dei propri genitori. Una condizione diffusa a molti paesi sviluppati, ma in particolare in Italia i meccanismi per movimentare le condizioni socio-economiche tra una generazione e l’altra si sono arrestati. Ascensore sociale fermo, meno opportunità di migliorare le proprie condizioni, inferiori possibilità di uscire dalla soglia di povertà per chi nasce in famiglie senza disponibilità. Da più di un ventennio, i portafogli degli under 30 sono sempre meno pieni, mentre crescono quelli degli over 65. C’è difficoltà a trasferire ricchezza da una generazione all’altra, tanto quanto c’è difficoltà nell’accumularne di nuova.

In Italia - A contribuire all’arrugginirsi di ingranaggi che solo un paio di generazioni fa parevano ben oliati e funzionanti, sono state anzitutto le tasse: in Italia la tassazione media sui redditi delle persone fisiche è pari all’11% del Pil, vicina insomma a quella di Danimarca, Francia o Belgio. Altrettanto alti i contributi a carico del datore di lavoro, che, invece, rappresentano l’8,7% del Pil, sempre tra i più alti dei Paesi OCSE. Cioè, chi ha alti stock di ricchezza mantiene la propria condizione, mentre chi non ha accumulato ricchezza rimane in una situazione disagiata. Un sistema fiscale che marca una distinzione, che coincide rispettivamente tra le generazioni più anziane e quelle più giovani.

Crisi partecipazione - Si tratta di generazioni poi sempre meno coinvolte nella vita del Paese, sia da un punto di vista di contributo allo sforzo produttivo, sia sotto un aspetto istituzionale e decisionale: in Italia il 34% dei giovani sono disoccupati, di questi il 23% non sono nemmeno alla ricerca di un impiego, e il 50% vive ancora con i propri genitori. Un futuro incerto e precario, un mondo del lavoro frammentato e la crisi dei partiti e delle ideologie, cui la Generazione Z –tra i 18 e i 34 anni, che per il 74,1% si tiene lontana dalle istituzioni, con un potere politico ed economico troppo in mano alle vecchie generazioni – risponde, come sostiene l’economista Tito Boeri, non con una rivendicazione dei diritti nazionali, ma con la “fuga di cervelli”.

Focus formazione - Uno scenario complesso e poco prevedibile nei suoi risvolti, a cui molti esperti replicano riportando al centro l’istruzione: un capitalismo democratico non solo per continuare ad accrescere competenze spendibili nel mondo del lavoro, ma per una partecipazione piena e attiva alla vita che possa essere civica, decisionale e comprensiva delle dinamiche delle dimensioni economiche, e non, del Paese.
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