Si è tenuto lo scorso 13 settembre, a Bologna, il G20 Interfaith Forum 2021, l’incontro annuale che raccoglie i rappresentanti di organizzazioni interreligiose e interculturali, enti umanitari e di sviluppo, nonché leader religiosi, studiosi e attori economici con l’intento di creare uno spazio di dialogo su temi comuni alle agende politiche degli Stati partecipanti.
Tema centrale del Forum è stato, quest’anno, “Time to Heal”, il tempo di guarire, con evidente richiamo alle conseguenze derivate dalla pandemia ma anche dai conflitti e dai drammi – non ultimo quello afghano – che investono i popoli.
Una sessione è stata inoltre dedicata all’argomento “Il razzismo e la leadership religiosa verso la riconciliazione”, che ha riproposto il dibattito - accesosi già da tempo anche nel mondo della cultura ed in quello giuridico – circa la necessità di eliminare la parola “razza” nell’art. 3 della nostra Costituzione, come già altri Paesi hanno fatto il Europa. La Francia difatti l’ha abolita dalla propria Carta tre anni fa insieme al riferimento alle differenze di sesso; lo stesso ha fatto la Germania, che ha riscritto l’articolo 3 della propria Costituzione sostituendo la formula “nessuno può essere danneggiato o favorito (…) per motivi razzisti” alla precedente espressione “per la sua razza”.
La notizia appena riportata offre lo spunto per soffermarsi sulla considerazione che la questione non è – come potrebbe apparire – di natura esclusivamente lessicale, ma comporta implicazioni di sostanza, alla luce delle quali il paradosso potrebbe risultare proprio quello per cui propugnare una crociata per l’eliminazione del termine “razza” possa avere come risultato quello di ammettere implicitamente l’esistenza di una “diversità” più che di una differenza tra le razze. Non solo: anche la ricerca di una espressione alternativa, di un sinonimo o di altro lemma che sostituisca quello ritenuto “non politicamente corretto” (per usare una formula di attuale tendenza) non favorirebbe affatto l’eliminazione del problema, poiché, al di là del termine usato, il significato retrostante resterebbe invariato. Difatti, sostituire “razza” con “etnia” – com’è stato proposto nel corso del Forum - al di là della finezza e del pregio estetico della parola, non connoterebbe d’altro significato un concetto che continua anch’esso a sottendere un’idea di diversità, a dispetto dello sforzo intellettuale di ritenerlo un termine non discriminatorio.
È per nostra stessa cultura, infatti, che tendiamo ad assegnare a termini come “etnico”, “etnia” un senso di “alterità” rispetto alla nostra prospettiva: noi apparteniamo ad una società, ad una cultura nostre e, dunque, sono “etniche” tutte quelle diverse da noi, sia che si tratti di società e culture dominanti che di minoranze. E il passo successivo, quando questa idea di alterità si assolutizza, è la tendenza a considerare “l’altro” come una minaccia e, dunque, a volerlo contrastare, sopprimere, sconfiggere.
A ben vedere questa è infatti la logica che risiede alla base di tante persecuzioni etichettate come “pulizia etnica”, di tante guerre fratricide, di tanti contrasti culturali.
L’esempio che a tal proposito mi è tornato in mente mi è stato suggerito dalla recente notizia della condanna per terrorismo pronunciata da un tribunale ruandese nei confronti di Paul Rusesabagina, l’uomo che nel corso del conflitto tra hutu e tutsi, culminato nel 1994 in un reciproco genocidio, trasformò l’albergo che dirigeva – l’Hôtel des Mille Collines di Kigali, capitale del Ruanda - in un luogo di rifugio per oltre 1.200 perseguitati di entrambe le popolazioni. A lui s’era ispirato il film “Hotel Rwanda” diretto da diretto da Terry George, uscito nelle sale nel 2004.
Da dov’era nata, in quel caso, l’alterità se non proprio nella prospettiva da cui ciascuno dei due osservatori aveva, in un dato momento, cominciato a percepire la “diversità” dell’altro? Originariamente esistevano soltanto due classi sociali: i Tutsi rappresentavano il ceto elevato, l'aristocrazia della società: possedevano terra e bestiame e gestivano il potere politico; gli Hutu svolgevano il lavoro agricolo e sovrintendevano al culto religioso.
Il passaggio da “classe” sociale ad “etnia” – intesa nel senso sin qui specificato – era avvenuto successivamente, alla fine del 1800 con il decisivo intervento dei colonizzatori tedeschi e belgi che avevano allargato e alimentato la differenza tra i due gruppi.
I belgi, in particolare, dopo aver favorito i Tutsi – e cioè la parte di popolazione detentrice del potere politico – svilendo la rilevanza degli Hutu fino a giungere a privarli della loro autorità religiosa, avevano infine inculcato nei primi l’idea d’un legame parentale della loro genia con popolazioni europee e, dunque, una sorta di superiorità rispetto agli Hutu che tale paternità non potevano vantare. Giunsero persino a favorire una rigida classificazione dei ruandesi in base al loro status sociale e alle loro caratteristiche somatiche, finendo infine per teorizzare che i Tutsi fossero una razza diversa dagli Hutu, intrinsecamente superiore in quanto più vicina a quella caucasica.
Indubbiamente vi furono anche altre ragioni - economiche e politiche – che favorirono il contrasto tra le due parti della popolazione, ma senz’atro fu per prima quella loro “etnizzazione” a divenirne il cardine.
E allora, senza voler ulteriormente argomentare quanto sin qui sostenuto, una semplice considerazione resta da fare: finché a cambiare non sarà la prospettiva (quella cui si accennava pocanzi ma anche quella intesa, in senso più ampio, come linea di pensiero, convinzione, ideologa) a poco servirà sostituire le parole. La sostanza rimarrà inalterata e continuerà, perciò, ad essere ancora devastante per la storia dell’umanità ogni conseguenza che potrà collegarsi ad una persistente convinzione o idea di diversità.