20 maggio 2023
pari opportunità - parità di genere

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Parità e identità

Autore: Ester Annetta
Che fosse in atto una rivoluzione linguistica tendente a sancire la ‘parità tra i generi’ passando attraverso lo sdoppiamento dei lemmi ambivalenti, al fine di renderne invece possibile la netta concordanza con ‘generi diversi’, è un dato di fatto ormai acclarato; ma è anche una delle bizzarre e forzate contraddizioni in termini inflittaci dal dictat del politicamente corretto, divenuto per certi versi un vero e proprio abuso.

Si è difatti assistito all’evoluzione di attributi – vedasi, in specie, quelli indicanti professioni - che, se per secoli, nel lessico comune, sono stati pacificamente impiegati indistintamente per identificare individui dell’uno o dell’altro sesso, d’un tratto sono divenuti discriminatori, tanto da imporre la necessità di crearne di omologhi chiaramente declinati nel genere mancante.

L’avvocato ha così preteso un’avvocata; l’architetto un’architetta e così via.

Tale esigenza è, peraltro, talmente sentita da aver portato persino alla revisione di alcuni datati ‘protocolli’. È difatti di qualche giorno fa la notizia – accolta con un entusiasmo decisamente sovradimensionato – che l’Ordine degli ingegneri (e delle ingegnere!) di Bologna, a seguito di una specifica delibera assunta dall’organo di vertice della categoria – il CNI (Consiglio nazionale degli ingegneri) – d’ora in avanti potrà rilasciare alle sue iscritte il sigillo professionale con la dicitura ‘ingegnera’.

La conquista è stata messa a segno grazie alla battaglia condotta da una professionista bolognese che, da circa tre anni, chiedeva al proprio Ordine che il suo titolo fosse convertito al femminile. Risolutivo è stato l’intervento della RebelArchitette, un’associazione che una simile crociata l’aveva già condotta per gli architetti, nell’ambito di una vasta attività di sensibilizzazione ad una visione più inclusiva della professione ed alla promozione della donna nel settore delle costruzioni.

È comunque tutto da dimostrare che alla rivoluzione linguistica – cui hanno capitolato ormai anche la Crusca e il Vocabolario Treccani - si accompagni anche un effetto che vada oltre l’aspetto puramente formale, giacché è nei fatti che andrà poi dimostrato il concreto raggiungimento di una parità di trattamento tra professionisti uomini e donne, specie in settori che tradizionalmente sono sempre stati a maggioranza maschile.

Il timore è che si sia attuata una mera soluzione di forma, cui vuole ipocritamente attribuirsi una valenza correttiva alla quale, nei fatti, stenta a riconoscersi un qualunque evidente ed autentico vantaggio.

Viceversa, quando si affrontano questioni di ‘identità’, ecco che la dimensione del contendere cambia, giacché l’implicazione diretta non è stavolta solo di forma ma di ‘sostanza’. Il paradosso è che, in tali circostanze, quella compattezza di vedute ed opinioni che sempre accompagna le questioni formali manca del tutto.

L’identità di che trattasi è, evidentemente, quella di genere. Con tutte le critiche, i radicati preconcetti e i moralismi che l’accompagnano.

Un caso su tutti è quello del recente matrimonio (rectius: unione civile) celebrato tra un appuntato scelto dell’Arma dei Carabinieri ed il suo compagno parrucchiere.

Anche stavolta c’è stata la rottura di un attempato ‘protocollo’; il cerimoniale dell’Arma prevede infatti per le cerimonie di nozze l’alta uniforme, il picchetto d’onore ed il famoso ponte di sciabole composto dagli ufficiali sull’attenti, sotto al quale passano mano nella mano gli sposi.

Tutto regolare finché il matrimonio celebrato sia quello tra un uomo e una donna.

Ma se invece si tratta dell’unione tra due persone dello stesso sesso ecco che parte immediata la contestazione ed i toni si fanno decisamente forti: l’appuntato ed il parrucchiere avrebbero addirittura infangato il cerimoniale e recato insulto ed offesa all’uniforme, tanto più che hanno avuto l’ardire di scambiarsi un bacio per sdrammatizzare l’inciampo che aveva fatto perdere allo sposo il cappello dell’alta uniforme allorché il suo pennacchio, al passaggio sotto il ponte di sciabole, ne aveva urtata una.

Eppure ce ne sono di uniformi che restano addosso a chi davvero le infanga, cedendo alla corruzione o perfino servendosene da ‘copertura’ per esercitare in maniera arbitraria la propria funzione o commettendo a sua volta i reati che dovrebbe perseguire!

La conclusione evidente è, allora, che c’è un difetto di coerenza se si pretende di trattare con un inverso criterio di proporzionalità questioni che, pur partendo da un presupposto comune – l’eliminazione del discrimine – cambiano di peso a seconda che si soffermino sulla mera apparenza o si calino nella concretezza dei fatti.

Parità di genere e identità di genere nei termini qui riportati non sono, dunque, termini accostabili, giacché, palesemente la prima sta alla forma mentre l’altra sta alla sostanza.

E tra di essi una proporzione non pare proprio possibile.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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