Tre minuti e mezzo.
È il tempo concesso ad ognuno per arrivare, scendere dal furgone, cercare il pacco, citofonare, attendere il cliente e consegnare.
Centocinquanta.
È la media degli “stop” – cioè delle consegne, effettive o tentate – che giornalmente ciascuno di loro effettua.
Se mai vi foste chiesti perché i corrieri Amazon vanno sempre così di fretta, si muovono a scatti, parlano velocemente, molleggiano sulle caviglie mentre aspettano una voce al citofono e fanno per andarsene se non arriva prontamente, la risposta è in quei numeri, che non sono affatto casuali o convenzionali, ma nascono da un ben preciso calcolo che una sorta di entità sovrumana - autentica signora e padrona del tempo - decide ed impone.
L’algoritmo.
C’è infatti una tecnologia – dispotica e tiranna – che, prendendo in considerazione diversi fattori (densità delle aree, ore di lavoro, distanza da percorrere) determina quante consegne un corriere possa effettuare in sicurezza nell’arco della sua giornata lavorativa, col “rischio" che, se realmente riesce ad eseguirle, legittima il calcolatore a ritenere quel percorso fattibile e, dunque, ripetibile allo stesso ritmo se non addirittura incrementabile.
Ci sono poi anche utenti – tanti, altrettanto dispotici e tiranni – che pretendono la puntualità assoluta nella ricezione dei loro ordini, solerti altrimenti nel recensire con pollice verso il servizio o ad inviare formali note di disappunto.
Ne consegue che, nonostante i “bonus” produttività che il colosso di Bezos elargisce, i corrieri sono prigionieri di ritmi di lavoro talmente sostenuti da desiderare piuttosto di rivedere il numero delle loro ore o delle consegne, dal momento che spesso nemmeno riescono a fare una pausa; e, se la fanno, c’è pericolo che quello stesso colosso li “recensisca negativamente” a sua volta.
Lo stesso vale anche per i dipendenti destinati alla parte più stanziale (apparentemente) del lavoro e cioè gli addetti ai pacchi nei magazzini della logistica, dove viene smistata l’infinita quantità di merce necessaria, utile o futile che ciascuno di noi, con frequenza talvolta anche compulsiva, continua ad acquistare contribuendo ad accrescere il forsennato calcolo dell’algoritmo.
Penso a tutto questo mentre leggo la notizia – ormai di qualche giorno fa – della lavoratrice addetta alla spedizione dei pacchi nel sito Amazon di Torrazza Piemonte che è stata sanzionata con la sospensione di un giorno per essersi trattenuta in bagno troppo a lungo.
Venti minuti.
È una misura del tempo che la politica bezosiana considera evidentemente eccessiva per una pausa, anche se è l’una e un quarto di notte, e soprattutto se quella durata è derivata dalla somma d’un intervallo necessitato da bisogni fisiologici con quello richiesto dalla fame relazionale che si accontenta del semplice nutrimento di un paio di frasi scambiate con un collega.
Di fronte al clamore che la notizia ha sollevato, l’azienda ha obiettato lanciando l’accusa di una strumentalizzazione dell’accaduto: non è vero che, come sostenuto dai sindacati scesi in campo a difesa della lavoratrice, “i lavoratori Amazon sono cronometrati per andare in bagno e vengono puniti con sanzioni disciplinari se i tempi non sono conformi all'algoritmo". La motivazione del provvedimento è tutt’altra: una suprema ragione di sicurezza che richiede a chi si allontana dal suo posto di lavoro di avvisare il proprio responsabile, cautela che la dipendente non ha osservato.
A dispetto dell’impellenza, dell’urgenza o anche della semplice esigenza di scardinare per una manciata di minuti gli automatismi che spesso trasformano le persone in macchine, per restituirle alla loro umanità.
Venti minuti
Il tempo bastante a contenere la presa di coscienza di quanto possa essere sottile, in tempi moderni, il confine tra la condizione di presunta libertà a quella di dissimulata schiavitù.
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