Un quindicenne della provincia di Chieti, con problemi psichiatrici, uccide il nonno 78enne a colpi di sedia e aspirapolvere perché colpevole di averlo rimproverato di passare troppo tempo al cellulare.
Riprende la scena con il suo smartphone e la condivide sul suo stato di WhatsApp. Poi si chiude in camera, in stato confusionale, e vi resta fino all’arrivo dei carabinieri che lo portano via.
È una storia vera, raccapricciante, accaduta solo pochi giorni fa. Rientra nel novero dei tanti efferati atti di violenza che con una frequenza impressionante – e soprattutto d’estate, incomprensibilmente - continuano a popolare le cronache, narrati con dovizia di particolari a una platea affamata di dettagli, di specifiche sulla crudeltà delle azioni, solerte ad ergersi ad accusatore d’ogni autore e a difensore d’ogni vittima.
Sarà stato così anche stavolta di fronte al tragico dettaglio del video dell’assassinio, che tutti i voyeristi social – ne sono certa - avrebbero bramato di poter visionare e sezionare con morbosità, se non vi si fosse opposto un raro ma quanto mai opportuno sentimento di decenza e rispetto.
Siamo, ahinoi, figli di un tempo in cui la tragedia ed il dolore “fanno spettacolo”, - addirittura “audience”, se si pensa a tanti talk show di bassa lega che, tra consigli per gli acquisti e chiacchiere con giudici da salotto, riempiono i pomeriggi di molte casalinghe - e pertanto vengono impiegati come strumento per meglio accaparrarsi lettori, telespettatori, ascoltatori e like.
Merci, vendute a fanatici estimatori di miserie umane che sguazzano in pantani di critiche, insulti e commenti, e che nelle forme di esibizione più sfruttate ed irrispettose della disperazione altrui trovano compiaciuto alimento.
In questo tempo pervaso dalla corsa allo scoop ad ogni costo e di opinionismo social di infimo profilo, i sentimenti sono denudati, scarnificati e gettati su un banco da macello alla mercè del cannibalismo mediatico.
Quanto più le storie sono tristi e angosciose, tanto più vengono ulteriormente straziate, riscritte come fossero copioni rivisitati dalla mano di un drammaturgo che confida nell’esasperazione empatica come strumento di partecipazione e coinvolgimento, a costo di violentare la realtà dei fatti e di saccheggiare i sentimenti di persone a diverso titolo coinvolte in vicende per le quali preferirebbero il silenzio al clamore, la solitudine all’accerchiamento, il pianto composto alle parate ed alle effimere crociate.
Si cercano i dettagli, si indugia nei particolari più atroci e scabrosi delle storie, senza alcun filtro e senza alcun ritegno, scavando nelle vite di individui mai prima conosciuti, alla morbosa ricerca di qualcosa che sia sfuggito agli altri e che conferisca quel primato consacrato da una carrellata di pollici all’insù che consente di sbattere in copertina il proprio profilo social.
Tuttologi improvvisati confezionano veri e propri processi in cui scandagliano improbabili fondali di ipotesi e presunzioni, ambendo alla conquista d’una etichetta di “esperto” che li catapulti in men che non si dica sulla ribalta d’un palcoscenico di cui diventano ben presto protagonisti d’eccellenza, trasformandosi in vip e star.
L’eccesso finisce così per diventare la regola, snaturando la genuinità della realtà e finendo per travestire di spontaneità quanto di più falso e costruito vi sia, poiché il rispetto e la misura, lungi dall’essere più considerati un pregio, diventano un limite, un’amputazione, un’ipocrisia tesi a coprire la verità, che invece deve essere ricercata, rivelata, divulgata, anche a costo di costruirne una su misura.
A ben guardare in questa tendenza all’eccesso rientra anche la narrazione del vissuto di ciascuno di noi, non più attenti a proteggere la nostra riservatezza e la nostra intimità ma, piuttosto, impazienti di raccontare le nostre esperienze e pubblicizzare ogni nostra emozione pur di catalizzare l’attenzione.
Prede di un narcisistico desiderio di apparire e di ostentare, siamo disposti a circolarizzare ogni episodio – non conta se saliente o poco significativo – delle nostre vite, scagliandolo in quell’universo virtuale di pubblico che, intrappolandolo nella rete dei commenti e delle condivisioni, imbratta l’eventuale purezza iniziale della nostra emozione, rendendola oscena ed abusata.
Ma che importa: la visibilità in fondo vale più della reputazione ed il pudore non è altro che una finzione, una sterile forma di inibizione che intralcia il possibile successo.
Se ci fermiamo a riflettere sulla impudicizia di tutto questo, non possiamo che inorridire per aver concesso a noi stessi un simile abbrutimento.