Come qualcuno ha detto, le sentenze non si commentano, si rispettano.
Vero, in linea di principio.
Ma nel caso di Mimmo Lucano forse non è così scontato; una pronuncia così abnorme lascia davvero sconcertati e non può non porre interrogativi, sollevare dubbi, ingenerare perplessità.
Quante volte nella storia giudiziaria del nostro paese è capitato che la pena proposta dalla pubblica accusa sia stata addirittura raddoppiata dal giudice?
Quante volte è accaduto che, nei confronti di colpevoli di reati che avrebbero meritato che le sbarre della loro prigione si chiudessero e le chiavi si buttassero via (come si suol dire con espressione colorita e molto eloquente) le pene siano state invece mitigate da attenuanti, sconti, condizioni peculiari?
Quante volte è successo che, di fronte ad una sentenza, si sia percepito, netto, un senso di ingiustizia anziché di ordine, equità, rispetto e tutela dei diritti?
Quante volte un giudizio nei confronti di qualcuno è sembrato piuttosto un processo rivolto altrove: ad un sistema, ad un modello, ad un programma – fortunatamente efficaci ma purtroppo scomodi - di cui quel qualcuno è stato ideatore e simbolo e che possono essere colpiti e disintegrati solo annientando la figura stessa che li rappresenta?
La sentenza contro Mimmo Lucano contiene in sé tutte queste incongruenze, ed è perciò tutt’altro che un emblema di giustizia.
È, anzi, l’evidenza d’una giustizia approssimativa e miope, dove ad essere giudicate sono più le idee che i fatti; dove, a fronte di prove materiali inconsistenti, si collocano i risultati di forzature operate a fin di bene, guidate da moventi – loro sì - di equità, uguaglianza, solidarietà, accoglienza, senso d’appartenenza ad un'unica, universale, fratellanza cui vale la pena di immolare la rigidità di strutture e di regole che, proprio perché partorite in astratto, niente contemplano di sentimento e di umanità.
E questo non significa affatto sovvertire il principio costituzionale secondo cui “la legge è uguale per tutti” né significa contrastare le istituzioni.
Significa, anzi, avere il coraggio di contestare un’uguaglianza che è assegnata solo ai contorni, alle “griglie di valutazione” cui vanno ricondotti i fatti, senza tuttavia tener conto se quei fatti nascano o meno, a loro volta, da condizioni di uguaglianza.
Se, dunque, c’è ancora oggi qualcuno che – come un novello Robin Hood o altro personaggio dell’epopea romantica – ha il coraggio di infrangere le regole per dimostrarne i limiti ed i difetti, costui non è di certo da condannare come criminale; la sua condotta va, viceversa, esaminata senza contaminazioni ideologiche, senza pregiudizi che ne altererebbero il valore per adeguarsi ad un “dovuto” che spesso scavalca l’”opportuno” ed il “necessario”, ma come la misura ragionevole, autentica e umana con cui vanno pesate le circostanze concrete ed i bisogni reali, in nome di quei valori sacrosanti di sicurezza, uguaglianza e rispetto della dignità umana che la giustizia “terrena” - o forse in questo caso sarebbe più opportuno dire “politica” – non può immolare né circostanziare.
Le sentenze non si commentano. Amen.
Ma allora sia consentito almeno commentare le reazioni di quanti non hanno esitato a scendere in picchiata come sciacalli su questa discutibile pronuncia al solo fine di distogliere l’attenzione da altre più scabrose o disdicevoli vicende che li vedono a loro volta coinvolti in maniera più o meno diretta o che l’hanno utilizzata, in maniera becera e meschina, come termine di paragone per veder ridotta l’entità delle proprie colpe o come pretesto per escludere la rischiosa competizione con un avversario scomodo.
Che sia consentito irridere chi sventola la bandiera della moralità issandola su castelli di fango quando, viceversa, sono proprio il suo presente o i suoi trascorsi che meriterebbero la sepoltura sotto cumuli di letame.
Che sia concessa, infine, la speranza in un appello che riformi una pronuncia che ora sa di amaro, che dai più non si comprende né si condivide, che pare essere l’ennesima conferma di quella sfiducia nelle istituzioni cui, oggi come ieri, pare spesso doversi rassegnare il popolo, come lucidamente affermò e predisse Piero Calamandrei davanti al Tribunale di Palermo, il 30 marzo 1956 difendendo Danilo Dolci, il “Gandhi della Sicilia” arrestato per aver ideato quello “sciopero alla rovescia” con cui aveva guidato centinaia di disoccupati a sistemare una strada di Partinico resa impraticabile dall’incuria e dall’abbandono: «Ma questa è, appunto, la maledizione secolare che grava sull'Italia: il popolo non ha fiducia nelle leggi perché non è convinto che queste siano le sue leggi. Ha sempre sentito lo Stato come un nemico. Lo Stato rappresenta agli occhi della povera gente la dominazione. Può cambiare il signore che domina, ma la signoria resta: dello straniero, della nobiltà, dei grandi capitalisti, della burocrazia. Finora lo Stato non è mai apparso alla povera gente come lo Stato del popolo. Da secoli i poveri hanno il sentimento che le leggi siano per loro una beffa dei ricchi: hanno della legalità e della giustizia un'idea terrificante, come di un mostruoso meccanismo ostile fatto per schiacciarli, come di un labirinto di tranelli burocratici predisposti per gabbare il povero e per soffocare sotto le carte incomprensibili tutti i suoi giusti reclami.»