28 ottobre 2023
Guerra-Bambino

Potrebbe interessarti anche:

Quotidiano
9 dicembre 2023

La buona novella

Leggi l'articolo
Quotidiano
25 novembre 2023

La tregua

Leggi l'articolo
Quotidiano
27 gennaio 2024

Il genocidio palestinese

Leggi l'articolo
Quotidiano
16 marzo 2024

Aronne

Leggi l'articolo
28 ottobre 2023

Shalom

Autore: Ester Annetta
Quando il 7 ottobre scorso, all’alba del ‘giorno del giudizio’ decretato da Hamas, degli uomini armati, animati da una ferocia inaudita, avevano assaltato il suo kibbutz, Yocheved Lifshitz aveva temuto davvero che il suo tempo in terra fosse ormai terminato.

Aveva assistito inorridita ed inerme allo scempio selvaggio compiuto da quegli individui, che, senza alcuna pietà, colpivano e uccidevano giovani e anziani, donne e bambini, dilaniando i loro corpi e mostrandoli come trofei.

Aveva visto scorrerle la vita davanti, le lunghe battaglie condotte lungo tutto il suo corso a favore dei diritti umani e del rispetto per la vita, il suo impegno di attivista per la pace in una terra dove quella semplice parola da tanto aveva perso il suo significato, dimenticata da chi un tempo di serenità ormai lontano l’aveva vissuto, sconosciuta a chi sin dalla nascita aveva imparato a riconoscere il sibilo di una bomba e il boato d’una esplosione.

Aveva pensato, forse, che fosse quella l’assurda ricompensa riservatale in sorte per aver sempre contrastato la guerra e la violenza: esserne infine vittima a sua volta, nella maniera più feroce e cruenta.

Ancora fino a quel giorno aveva tentato di salvare la sua gente: le forze di sicurezza israeliane erano state informate e avevano sufficienti prove dell’imminente attacco di Hamas, la cui avanscoperta poche settimane prima era arrivata alla recinzione di sicurezza, quel ‘perimetro carcerario’ che delimita Gaza dal territorio israeliano. Ma quelle avvisaglie erano state ignorate ed intere comunità erano state abbandonate a sé stesse, in balia della furia omicida che di lì a poco si sarebbe scatenata.

Eppure quegli uomini l’avevano risparmiata; quel giorno, mentre si compiva l’assurda carneficina, lei era stata lasciata viva.
L’avevano caricata e legata ad una motocicletta diretta a Gaza. Durante il tragitto, il guidatore l’aveva colpita ripetutamente con un bastone di legno; non le aveva procurato fratture, ma le costole avrebbero continuato a lungo a farle male, anche soltanto per compiere la semplice azione di respirare.
Le avevano anche rubato orologio e gioielli, ma quello, tutto sommato, era stato il dolore minore.

Ancora con negli occhi l’orrore della violenza e del sangue e sul corpo gli esiti dolorosi di quel tragitto sgangherato, Yocheved Lifshitz era infine arrivata a Gaza, nella tana del nemico. Per un po’ era rimasta prigioniera ad Abasan al-Kabira, non lontano dal confine; poi in un’altra località che non aveva potuto identificare. Infine era stata condotta sottoterra, nell'immensa rete di cunicoli che si sviluppa nelle viscere dell'enclave palestinese. In quel dedalo di tunnel umidi aveva camminato per ore, fino ad arrivare in un’ampia stanza, dove aveva trovato un gruppo di altre persone, 25 in tutto, che erano state poi separate in base al kibbutz di provenienza.

E lì, in quell’inferno, per la seconda volta aveva pensato che non sarebbe mai tornata ‘a riveder le stelle’.

Perché proprio lei, una vecchia di 85 anni era stata risparmiata? Che senso aveva quella prigionia e come si sarebbe conclusa? Non sarebbe stato forse più ovvio finirla lì, nel suo kibbutz, in luogo di un bambino, di una donna o di chiunque altro più giovane di lei? Che cosa l’aspettava? Forse una qualche assurda forma di tortura che consentisse ai suoi carcerieri di sfogare altrimenti il loro odio?

Se l’era chiesto per tutto il tempo, confusa da quelle insolite premure che, giorno dopo giorno, per due settimane, i suoi rapitori avevano continuato a riservare a lei e agli altri prigionieri. Sembravano così amichevoli! Gli avevano assegnato dei materassi, si assicuravano che mangiassero (lo stesso cibo che mangiavano loro: pita con formaggio bianco e cetrioli), pulivano quotidianamente i bagni con il disinfettante per scongiurare il rischio di infezioni e malattie. Fornivano persino shampoo e balsamo!

L’incubo di quel giorno, però, continuava a ripetersi nella sua mente: non poteva distoglierla dalla visione dei morti e dal pensiero delle sorti degli altri ‘ostaggi’ (perché questo le avevano detto di essere, non dei ‘prigionieri’) compreso suo marito Oded, 83 anni, con cui aveva sempre condiviso il suo attivismo. Le ricordava tutte quelle lunghe spole fatte insieme per trasportare personalmente palestinesi malati da Gaza verso ospedali di Israele dove potessero ricevere cure adeguate.

Poi nella serata di lunedì scorso era accaduto qualcosa: un accordo mediato da Egitto e Qatar, che aveva portato al rilascio di due ostaggi. Ed era toccato a lei e ad un’altra donna di 79 anni, Nurit Yitzhak, di lasciare quella prigione sotterranea e risalire alla vita.

Era stato allora che Yocheved Lifshitz aveva compreso il senso di quei giorni.

Lo aveva capito mentre, a passo incerto e barcollante, fianco a fianco con l’altra prigioniera, aveva percorso gli ultimi metri che la riportavano verso la libertà, sfilando accanto ai suoi carcerieri armati di mitra, incappucciati nei passamontagna neri bordati della bandana verde di Hamas.

Lei, una donna ormai vecchia e consumata, era stata risparmiata perché – tra tutto quell’orrore e quella devastazione – spendesse il suo debole fiato e le sue residue energie per continuare la missione che per tutta la sua esistenza l’aveva animata; perché fosse testimone di una speranza che mai dev’essere abbandonata, neanche di fronte alla ferocia più inaudita; perché veicolasse il messaggio che ogni popolo oppresso urla più forte delle grida di dolore e del fragore delle bombe.

E dunque, a quei guerrieri dispensatori di morte, per primi, doveva tendere la mano – sciogliendo per un momento la loro fermezza e la loro rigidità nel mentre allentavano la presa sul mitra – e dirigere quell’invocazione, quella lieve parola appena sussurrata con voce antica, che ha lo stesso significato in qualunque lingua, che racchiude una potenza uguale e inversa ad ogni conflitto e che se fosse usata come unico strumento in luogo delle armi, potrebbe correggere le sorti dell’umanità intera, relegando al passato ed alla memoria che ammonisce i resti di tutte le guerre della terra, anche quelle più lontane e dimenticate.

Shalom.

Pace.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

Potrebbe interessarti anche:

Quotidiano
9 dicembre 2023

La buona novella

Leggi l'articolo
Quotidiano
25 novembre 2023

La tregua

Leggi l'articolo
Quotidiano
27 gennaio 2024

Il genocidio palestinese

Leggi l'articolo
Quotidiano
16 marzo 2024

Aronne

Leggi l'articolo
Iscriviti alla newsletter
Fiscal Focus Today

Rimani aggiornato!

Iscriviti gratuitamente alla nostra newsletter, e ricevi quotidianamente le notizie che la redazione ha preparato per te.

Per favore, inserisci un indirizzo email valido
Per proseguire è necessario accettare la privacy policy