Quella volta era stato il vento. Soffiava così forte da far temere che gli alti fusti degli alberi del suo giardino si spezzassero. Perciò, giacché lei non si vedeva da tempo e nessuno ne aveva notizie, qualcuno dei vicini aveva pensato di avvertire il nudo proprietario della casa, che dalla Svizzera – ove risiedeva – non aveva potuto far altro che chiedere l’intervento dei vigili del fuoco.
Così era stato dunque trovato – nella sua villetta alle porte di Como - il cadavere di Marinella Beretta, rimasta seduta per due anni sulla sedia della sua cucina dal giorno in cui il suo cuore aveva deciso improvvisamente di fermarsi.
Nessuno si era curato di accertarsi del perché da tanto, troppo tempo, non si vedesse più in giro, neppure a far la spesa. Poi c’erano stati la pandemia ed il lockdown e, dunque la ragione di quella scomparsa era stata assegnata alla supposizione che se ne fosse andata da qualche parente. Ma di parenti Marinella non ne aveva, come non aveva amici; e quei conoscenti che della sua morte non s’erano avveduti, nemmeno si erano forse mai accorti che fosse stata viva. Abbandonata alla sua solitudine, consegnata all’indifferenza.
Stavolta è stato invece il caldo. Così soffocante da aver accelerato il processo di decomposizione del suo corpo, rimasto sul pavimento dove s’era accasciato, attirando così l’attenzione dei vicini per via del cattivo odore che giungeva dalla sua casa.
Siamo a Ragusa, nel caloroso - oltre che caldo (più che mai in questi giorni) - Sud d’Italia, la latitudine dove si tende a ritenere (ma forse è solo per luogo comune!) che le relazioni, i rapporti di vicinato, il senso di comunità siano molto più forti e vivi che altrove.
Eppure anche questa donna di 73 anni, ancora anonima come il resto della sua esistenza e come tante altre vittime, è morta allo stesso modo di Marinella: sola. L’unico affetto vero e fedele – ma purtroppo impotente - che ha avuto vicino nei suoi ultimi istanti di vita è stato quello del suo cane, che ha continuato a vegliarla per giorni - settimane forse - senza muoversi dal suo cadavere. E lì accanto è stato infatti trovato, morto a sua volta: di fame probabilmente, perché al crepacuore di un animale gli umani si vergognano di credere se vale a sottolineare che ad essi sia invece mancata finanche la compassione.
Ma c’è anche la storia di un’altra donna, anch’essa coetanea delle prime due, che ha invece avuto il tempo e la forza di reagire prima che l’indifferenza uccidesse anche lei. Succede a Parma, in questi primi giorni di luglio.
Non mangiava da giorni perché i suoi problemi di deambulazione le impedivano di uscire da casa per far la spesa. Ma quel che è peggio è che non aveva nessuno – un vicino, un amico o un parente – cui potersi rivolgere.
Così ha deciso di chiamare la polizia, l’unico aiuto possibile rimastole, quello “istituzionale”, talvolta tristemente deputato a sopperire a quello “umano” anche quando i bisogni da arginare rientrerebbero nell’ordinario sentimento di sollecitudine e solidarietà che, come esseri dotati di ragione, dovrebbe sottrarci alla genericità della discendenza animale. Agli agenti ha dunque manifestato la sua elementare, primaria e drammatica necessità: ho fame.
Non ha voluto andare in ospedale, no: la sua debilitazione forse più che dell’inedia era figlia dell’abbandono; la sua fame non era solo di cibo, ma di vicinanza, di parole, di ascolto, di rapporti umani: tutto quello che le hanno dato gli agenti, che sono dunque rimasti con lei, le hanno fatto la spesa, pagato le bollette e perfino ordinato una pizza per cena.
Non c’è voluto molto a salvarla; è bastato solo accorgersi che la richiesta d’aiuto di quella donna andava oltre il bisogno materiale: era una protesta contro l’indifferenza, un grido di dolore per una mancanza che più che il corpo le stava fiaccando l’anima.
Ammettiamolo: la pandemia ha reso ancora più invisibile la vita delle persone anziane e sole e ha anche reso noi tutti – a dispetto dell’aspettativa del “ne usciremo migliori” su cui la paura iniziale ci aveva illuso – più distanti e più egoisti, incapaci di compiere “opere di misericordia spirituale” che sfamino appetiti di umanità non meno di quanto lo siamo di compierne di “misericordia corporale”, atte a sfamare fame di alimenti.
La solitudine non è mai una scelta; e se lo è, la si sceglie solo perché forti della consapevolezza di avere attorno una rete di contatti, amicizie, parentele dai cui radar non si scompare, anche quando si prendono volontariamente le distanze.
La solitudine vera è invece un cancro che, come quelli peggiori, può renderci terminali, specie se nessuno si prodiga per offrire cure.