Il vantaggio del non essere una sportiva (nel senso di non nutrire alcun particolare ardore per alcun tipo di competizione e disciplina) è quello di avere la possibilità di accamparmi in una prospettiva da cui mi è, viceversa, possibile osservare la sportività altrui, mantenendo la giusta obiettività e un adeguato distacco.
L’ho verificato ancora una volta in occasione delle due importanti finali – Wimbledon e Wembley - che domenica scorsa hanno monopolizzato l’attesa e l’attenzione degli italiani.
Non ho seguito il match tra Djokovic e Berrettini: non amo la ripetitività dell’azione tennistica ed ancor meno il silenzio che contorna gli incontri. Non sono dunque in grado di esprimere giudizi sulla tecnica, le capacità, la potenza e quant’altro occorra a tracciare un ritratto dei campioni che si scontrano. Tuttavia mi piace leggere i commenti sulle loro performance, le valutazioni espresse da altri e, soprattutto, al termine dei confronti più serrati – com’è stato quello di domenica scorsa - mi soffermo sulle dichiarazioni e sulle reazioni espresse a freddo dagli stessi protagonisti, quando, ormai liberi dalla tensione della partita e “caldi” delle sensazioni appena maturate, lasciano aperti spiragli attraverso i quali è possibile sbirciarne l’autenticità.
Così ho avuto modo di apprezzare la compostezza e la serenità di quel ragazzone di 25 anni, che con quel suo sorriso dipinto, i denti bianchissimi e gli occhi pungenti, al termine del match, riconoscendo la superiorità del suo avversario - cui si è nobilmente inchinato - ha candidamente dichiarato: “Questo è solo l’inizio. Continueremo a provarci", dimostrando così che, insieme alla passione ed al talento, quello che spesso occorre nello sport è l’umiltà, la capacità di saper perdere, di accettare i propri limiti non tanto per giustificare i propri errori ma per lavorare alla maniera di superarli.
Nemmeno ho seguito la finale degli Europei di calcio, se non gli ultimi minuti dei tempi regolamentari. Poi ho spento ogni suono in casa e, con un libro in mano e l’attenzione divisa, sono rimasta sintonizzata sui rumori delle case intorno, da dove, attraverso terrazzi, giardini, finestre aperte, arrivavano urla, imprecazioni, versi di delusione, incitazioni, applausi ed esultanze. Mi è stato così possibile intuire ogni passaggio, immaginare le azioni, capire immediatamente - quando urla e scoppi di petardi si sono uniti in un unico, fortissimo boato - che l’Italia aveva conquistato il titolo di campione d’Europa.
L’eco dei clacson impazziti, delle trombette, dei cori è andato avanti fin quasi all’alba, insieme alle ammucchiate di piazza e ai caroselli, in barba a qualunque regola di prudenza e di distanziamento, già peraltro allentata dall’arrivo della stagione estiva che, come già fu l’altr’anno, si lascia ingannare da un apparente indebolimento della carica virale del Covid. Ma tant’è.
L’indomani è stato il tempo dell’analisi sulle dichiarazioni e, soprattutto, sulle reazioni dei protagonisti. Certo, non si poteva pretendere che undici uomini appena usciti dall’arena vittoriosi, insieme ad allenatore, riserve e tecnici mantenessero un contegno elegante e pacato come quello del giovane tennista che, nelle ore di poco precedenti, aveva ceduto la coppa all’avversario; tuttavia è stata, la loro, un’esultanza disciplinata, senza sprezzo per gli sconfitti, spocchia o ironia, a differenza di quanto ha invece fatto la tifoseria col fiume di meme dilagato immediatamente sui social.
Ciò che invece è apparso più evidente, sorprendente e biasimevole è stata proprio la condotta dei vinti, che, a dispetto dell’etichetta e dell’eleganza di cui sovente rivendicano paternità e primato, hanno mostrato atteggiamenti con cui hanno altrettanto prontamente ricordato d’essere imparentati con gli hooligans: fischi sul nostro inno nazionale, tricolori calpestati, insulti razzisti sui social contro i tre giovani calciatori della squadra di casa colpevoli di aver sbagliato altrettanti rigori decisivi per l’esito della partita e persino il plateale gesto degli stessi calciatori di sfilarsi dal collo le medaglie “da secondi” appena ricevute, quasi fossero ignobili marchi di second’ordine.
Comprensibile la delusione come pure la rabbia. Ma ingiustificabile restano comunque il disprezzo e l’irriverenza.
Ma va forse pure in questo colto un segno dei tempi che cambiano e, con essi, anche dei costumi e delle tendenze dei formalissimi anglosassoni che, ormai lontani dalle rigide regole della tradizione, dall’impeccabilità dei loro protocolli e del loro galateo, rivelano un’indole in fondo non dissimile da quella di ogni altra popolazione verso cui hanno da sempre ostentato superiorità e puntato il dito biasimandone la rozzezza.
Dal canto nostro, da italiani, possiamo invece essere fieri di aver avuto – grazie ad una vittoria conseguita e ad una mezza vittoria carica di promesse – l’occasione di dimostrare non solo una grande sportività ma anche una profonda umanità, che, in finale, è ciò che vale a raccogliere consenso e stima più della piastra d’oro appesa ad una fascia o del luccichio d’una coppa sollevata in segno di vittoria.
Il vero trionfo per tutti noi italiani è rimasto inciso in altri segni: nell’incedere claudicante di Spinazzola che, appoggiato alle sue stampelle, si è per primo diretto a ricevere quella medaglia che ha sentito di aver conquistato insieme ai suoi compagni pur non avendo potuto giocare con loro; nell’abbraccio, intenso e lunghissimo, che ha chiuso in una bolla di gratitudine e commozione Mancini e Vialli, come se in quell’attimo fossero loro soli, senz’altro intorno, sul bordo d’un campo dove invece i festeggiamenti erano già esplosi; nell’esultanza pacata di un capo di Stato, tifoso tra i tifosi, che ha tenuto alta insieme agli altri quella bandiera tricolore che, stavolta, ha avuto un significato meno austero di quella che solitamente lo incornicia. E, ancora, nel limpido, dolcissimo sorriso del giovane Matteo, salito letteralmente sul “carro dei vincitori” non per opportunismo (come oggi suole intendersi tale espressione) ma per rendere anche sua quella vittoria, come fosse quella che qualche ora prima aveva di poco mancato.
Tanto per ricordarci che la solidarietà è una condizione inscindibile dalla sportività.