A rivedere quelle immagini, il commento monotono e cantilenato del cronista è la sola nota in disaccordo con la limpida bellezza di ciò che sta accadendo in pedana nel mentre che lo descrive.
Sono gli ultimi secondi della finale dei campionati italiani Under 23 di scherma. Gaia ed Emilia si fronteggiano, decise entrambe a tentare fino all’ultimo la conquista della gloriosa medaglia posta sul gradino più alto del podio, benché la prima sia ormai in vantaggio di tre punti sull’altra.
Ma - come mi ripeteva sempre il mio caro maestro di scherma, in quella breve parentesi della mia passata vita in cui ho ceduto al fascino d’una divisa bianca e di una spada - “non è finita finché non è finita”: è il motto che adopero tuttora come un mantra prima di ammettere una qualunque resa; ed è la più vera delle regole su quella fettuccia di 15 metri, dove una manciata di secondi può essere sufficiente a ribaltare le sorti della partita, anche quando l’esito sembra già scontato.
La ‘rivoluzione’ possono farla la bravura o la velocità, la tecnica o anche soltanto la fortuna.
Ma nel caso di Gaia ed Emilia l’ha fatta la nobiltà d’animo, insieme ad un senso etico talmente solido e radicato da sembrare quasi anacronistico di questi tempi e tra quei giovani che spesso si accusano di superficialità e mancanza di valori.
Emilia, nonostante i suoi pochi anni, è stata infatti capace di dare una lezione di sportività - senz’altro – ma, ancor più, di rispetto e di profondo significato morale.
Di fronte alla caduta dell’avversaria ed alla distorsione che l’avrebbe resa malferma per il resto dell’incontro, esponendola alla vulnerabilità d’ogni stoccata o affondo, ha fatto il più elevato e coraggioso dei gesti: indietreggiare. Ma non è stata affatto una resa la sua, né tanto meno un segnale di indifferenza, come invece appare ogni volta che si arretra di fronte ad una qualunque difficoltà altrui. È stato, al contrario, il modo più eloquente per dire: ‘la vittoria ti spetta, non posso approfittare della tua caduta per scavalcarti e salire più in alto di te sul podio’.
Così, alternando il triplo dei passi indietro ad ognuno mosso in avanti, ha continuato ad allontanarsi, fino allo spirare di quegli ultimi diciassette secondi mancanti al termine della gara.
Poi ci sono stati solo abbracci, lacrime e commozione tra quelle due ragazzine: amiche, complici, giocatrici corrette e generose; avversarie solo in gara ma mai rivali.
‘La scherma è disciplina, prima ancora che sport’, diceva ancora il mio maestro, ma probabilmente allora credevo che si riferisse ad una condotta rispettosa delle regole del gioco.
Evidentemente è invece altra la disciplina che insegna: quella nobiltà intima che tanto bene si sposa con l’eleganza dei suoi passi e dei suoi movimenti; col gesto eloquente di quella mano libera sollevata, che conserva memoria della lanterna portata da ogni duellante – in tempi di cappe e cavalieri – quando, a difesa del proprio onore, si sfidava l’offensore prima che fosse giorno.
E di quell’onore, guadagnato nel momento stesso in cui l’ha offerto alla sua compagna penalizzata, Emilia Rossatti ha dato un’esemplare dimostrazione, lasciando che ‘traditi’ non restassero lealtà e rispetto, ma soltanto il cognome della sua dirimpettaia in pedana.
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