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Tempo dopo

Autore: Ester Annetta
La scena è ora occupata dalla vicenda di Saman, nell’attesa - quasi cinica – del ritrovamento del suo cadavere, l’ingrediente mancante a saziare l’appetito di chi, sorvolando sulla tragedia, trovi invece nella sua triste vicenda il pretesto per scagliare invettive d’altro tipo, perlopiù fondate sulla critica ai precetti d’altri popoli e sulla loro inferiorità.

Sono dunque già scomparsi i volti e l’interesse per Luana, per Mariolina e Alessandra, per il Montarone, per Seid.

Ed è invece proprio a Seid - ora che la vampata d’interesse per la sua vicenda si è spenta - che è utile tornare, lontano dalle polemiche che hanno accompagnato i giorni in cui l’attenzione gli era rivolta e che avevano ribaltato il senso profondo della sua tragedia a vantaggio delle consuete strumentalizzazioni.

“Tempo dopo…”, come nei racconti, è la necessaria formula, la distanza - poco o tanto è spesso irrilevante - che deve porsi rispetto ai fatti affinché sia possibile una riflessione maggiormente lucida, scevra da sbandieramenti ideologici e da sterili polemiche.

Serve allora partire da un dato concreto, drammaticamente vero: dopo gli incidenti stradali, la percentuale dei suicidi rappresenta, tra i giovani, quella più rilevante tra le cause di decesso.

A tale conclusione era già giunto uno studio condotto sugli ultimi 30 anni da ricercatori dell'Istituto Superiore di Sanità: in Italia – ma il discorso vale anche per il resto del mondo - il suicidio è difatti la terza più frequente causa di morte tra le persone di età compresa tra 15 e 29 anni.

Il dato si è, tuttavia, ulteriormente aggravato a seguito della pandemia – il 20% in più, si è stimato - sicché, da terza, il suicidio è divenuto la seconda causa di decesso tra i giovani, ampliando peraltro anche la sua forbice, poiché è già a partire dai 10 anni che se ne registrano casi.

I mesi passati, fatti di restrizioni e privazioni, di isolamento e solitudine, con scuole e palestre chiuse e, dunque, azzeramento delle occasioni di incontro e di relazioni sociali, hanno avuto effetti devastanti sugli adolescenti, specie quelli più fragili.

La depressione ne è stata la conseguenza più diretta e, se si considera che, dietro un suicidio – tentato o consumato – per la quasi totalità delle volte c’è proprio la depressione con gli atti di autolesionismo e le condotte pericolose cui essa induce, ecco che i conti tornano.

Questo “male oscuro” – il male del secolo - che aggredisce anche i giovani, ha una portata generale: li colpisce indistintamente, senza selezionarli in base a nazionalismi o al colore della pelle. In tanti che, già provati dalla propria fragilità, assediati dai propri fantasmi, stretti nella morsa dei loro disagi, hanno patito anche il vuoto creato dalla pandemia, si sono arresi a quel male.

Seid era tra questi.
La sua morte, allora, non è stata solo il dramma della sua famiglia, il suo personalissimo e straziante dolore: è stato un segnale d’allarme, il simbolo della fragilità di una generazione intera, la prova di un dramma sociale, non solo singolo e individuale; l’eredità ultima lasciata dalla pandemia, lo strascico, come se non fossero state già abbastanza le terapie intensive, le stragi nelle RSA, la conta delle bare.

Ma è stata anche altro.
È stata una denuncia, uno spietato “j’accuse”, che rende tuttora attuale il contenuto di quella lettera che i genitori di Seid hanno precisato doversi datare ad un altro tempo, ad un passato pesante e scomodo che – per evitare lo sciacallaggio mediatico – hanno escluso abbia legami con l’insano gesto del loro figlio.

Può bastare, può convincere ciò che essi dicono.
Ma è un’altra l’accusa che resta, quella che nessuno può smentire.
Le parole scritte da Seid vanno lette oltre il loro significato immediato: non sono solo lo sfogo di dolore d’un giovane che sente pesare sulle sue spalle “come un macigno, il peso degli sguardi scettici, prevenuti, schifati e impauriti delle persone”, né solo la denuncia del discrimine e del pregiudizio vissuti sulla propria pelle.

Sono, invece, la testimonianza di come ci siamo trasformati noi tutti, di come noi - la società - siamo diventati.
Lo si coglie in alcuni passaggi fondamentali di quella lettera, nella descrizione di quel “prima” e quel “dopo” che ha visto mutare gli sguardi delle persone su tutti i Seid che ancora incontrano: “prima di questo grande flusso migratorio ricordo con un po’ di arroganza che tutti mi amavano. Ovunque fossi, ovunque andassi, ovunque mi trovassi, tutti si rivolgevano a me con grande gioia, rispetto e curiosità. Adesso, invece, questa atmosfera di pace idilliaca sembra così lontana; sembra che misticamente si sia capovolto tutto, sembra ai miei occhi piombato l’inverno con estrema irruenza e veemenza, senza preavviso, durante una giornata serena di primavera”.

Il “prima” era il tempo dell’accoglienza, quello in cui nessun bambino avrebbe mai pensato di doversi vergognare “di essere nero”, avrebbe mai avuto paura “di essere scambiato per un immigrato” avrebbe mai dovuto pensare di dover “dimostrare alle persone” d’essere “come loro…italiano….bianco”. Era il tempo degli sguardi di tenerezza, delle carezze, della solidarietà che fa bene.

Il “dopo” è l’oggi, il tempo dell’intolleranza e del discrimine, nelle loro più ampie sfumature: dal razzismo becero e banale, racchiuso nelle frasi delle comari di paese che, ad un bambino innocente che gioca a calcio felice e spensierato con i suoi amici sono capaci di dire: “goditi questo tuo tempo, perché tra un po’ verranno a prenderti per riportarti al tuo paese”, a quello istituzionalizzato, fatto di porti chiusi, di navi all’ancora, di caporalato e, ancor peggio, di azioni “difensive” e “repressive” guidate dalla paura e dal sospetto.

La lettera di Seid, allora, non è vecchia di due anni, se si supera il convincimento che valga solo a supportare l’equazione troppo semplice che lega il razzismo al suicidio; è invece attualissima, vera e cruda, un manifesto di potente denuncia sociale come fu, tempo addietro, la “lettera ad una professoressa” della scuola di Barbiana.

Forse anche questa lettera andrebbe allora studiata, e non solo a scuola, perché certe lezioni non perdono mai d’efficacia. Nemmeno “tempo dopo”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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