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Una storia italiana

Autore: Ester Annetta
Come ogni mattina, Peppino si era svegliato presto.

Aveva fatto il suo consueto giro tra il bar e l’edicola, fermandosi brevemente lungo il tragitto a salutare con fare gioviale ogni conoscente incontrato e a scambiare con ciascuno brevi battute sul tempo o sugli acciacchi dell’età.

Poi, di ritorno, s’era fermato al solito posto, poggiato al muretto davanti al portone del suo palazzo, ben coperto – che il freddo alla sua età è un nemico insidioso – e con la cassetta degli attrezzi posata accanto ai suoi piedi.

In attesa.

Era così che si faceva tanti anni fa, quand’era ancora giovane, nella sua Bari come in ogni altro luogo di quel meridione d’Italia dove un lavoro fisso era privilegio di pochi.

In gruppetti si sostava in punti ben precisi della città, dove chi fosse stato alla ricerca di manovalanza spicciola, da impiegare a giornata, sapeva di poter senz’altro trovare fisici vigorosi e braccia robuste.

A quell’antica pratica Peppino era tornato da quando era andato in pensione dal suo lavoro regolare, giacché, dopo essersi goduto per un po’ la “vacanza” offertagli da quella sua nuova condizione, s’era ritrovato ad annoiarsi.

Le giornate erano troppo lunghe, solitarie e vuote per lui che era stato un lavoratore instancabile, e non sarebbe stato un adeguato e soddisfacente passatempo – come invece lo è per tanti suoi coetanei - andare in giro ad osservare i lavori nei cantieri sparsi per la città, per lui, che nei cantieri aveva sgobbato e sudato tutta una vita.

Così, a 78 anni suonati, ancora offriva i suoi servigi: poggiato al suo muretto, con la sua cassetta degli attrezzi pronta, rimaneva in attesa che qualcuno andasse a chiamarlo per offrirgli qualche lavoretto.

Perciò, la mattina del 15 febbraio scorso s’era ritrovato a lavorare all’impianto antincendio di un box condominiale in via Tenente Pilota Licio Carri, quartiere Picone, distante qualche centinaio di metri appena da casa sua.

Ma mentre era in cima ad una scala, una bombola ad alta pressione, contenente gas antincendio, era chissà come esplosa, facendo sganciare la valvola superiore. Forse era stata proprio quest’ultima a colpirlo o forse l’esplosione l’aveva fatto ruzzolare giù dalla scala.

Fatto sta che Peppino a casa non ha più fatto ritorno.

È morto lì, in quel box, accanto alla sua cassetta degli attrezzi.

Che tragico finale ha questo breve e semplice racconto; e quanto lo si sarebbe voluto diverso!

Invece è proprio questo l’epilogo della storia di Giuseppe Cianciola, pensionato, già operaio, che a 78 anni ancora si svegliava presto ogni mattina per andare a lavorare.

È una storia che raccoglie più tragedie, tutte di uguale rilevanza, tutte talmente allarmanti da sollecitare la necessità di interventi concreti ed efficaci che ne impediscano il ripetersi.

La prima è quella sempre più ricorrente delle morti sul lavoro, le cui cifre aumentano ogni anno, andando ben oltre il migliaio. È il segnale che qualcosa non funziona come dovrebbe nell’ambito della sicurezza, che continuano ad esserci mancanze ed approssimazioni che, con preoccupante frequenza, sono causa di disgrazie altrimenti evitabili.

Ma la questione non è isolata; si collega ad un’altra - altrettanto preoccupante - che è la consistente incidenza con cui si ricorre al lavoro in nero.

Non succede, come si è perlopiù portati a credere, soltanto con immigrati ed irregolari in genere; è, viceversa, un fenomeno che si allarga incredibilmente anche ai nostri connazionali, cittadini di quella Repubblica fondata sul lavoro che troppo spesso pecca invece di assicurare le garanzie che promette. E difatti, tra mancati rinnovi di contratti di lavoro, blocco dei salari, svilimento del potere di acquisto della moneta, pensioni ridicole, sono in molti – lavoratori e pensionati – a ritrovarsi a dover tirare a campare, arrangiandosi a fare qualunque cosa, senza protezione, senza rispetto, senza orari, e senza alcuna tutela per la sicurezza della propria vita.

La tragedia nella tragedia.

Infine c’è l’ultima, quella più invisibile e perciò più subdola, che rende drammaticamente unica e imperdonabile ogni disgrazia.
È la tragedia della solitudine; quella che spinge persone ormai già avanti negli anni a cercare ad ogni costo conforto ad una condizione di abbandono affettivo (e talvolta effettivo), impegnando le proprie giornate con l’unica cosa che sanno fare, che hanno sempre fatto, anche se non hanno più la stessa forza fisica, scambiata oramai con quella della disperazione, il solo carburante che ancora alimenta il loro consumato motore.

La storia di Peppino le raccoglie tutte queste tragedie.

E ci lascia perciò una morale, pungente ben oltre quella comune, giacché non si ferma solo ad ammonire sulla necessità del rispetto di norme e regole che imbriglino pretese di profitto troppo spesso prevalenti, a discapito della sicurezza e della salvaguardia dell’esistenza.

È una morale più profonda, rivolta a quella parte più intima della coscienza che, al di là della legalità e della correttezza, dovrebbe soffermarsi a considerare anche i bisogni affettivi d’una generazione cui dobbiamo, si, rispetto e gratitudine ma soprattutto protezione.

Non quella di una fune o di un caschetto, ma quella di una carezza, d’una parola di vicinanza, d’un segno d’amore.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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