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Viaggio nel lato oscuro dell’animo umano

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Viaggio nel lato oscuro dell’animo umano

Autore: Ester Annetta
Per ogni viaggio c’è un tempo e c’è una stagione.
Il primo - ove lo si intenda come momento della propria vita in cui si è sufficientemente preparati ad affrontarlo - non dipende esclusivamente da una libera scelta: è imposto da particolari condizioni fisiche, specifiche congiunture, stati d’animo appropriati. Dunque, capita. Anzi, più correttamente può dirsi che sia il tempo a sceglierci.

La scelta della stagione – intesa invece in senso astronomico - è viceversa rimessa alla nostra volontà ed alle attese climatiche che vi si riconducono.

Perciò, per questo viaggio da cui ho appena fatto ritorno, ho atteso che il tempo mi scegliesse. Io ho soltanto deciso che fosse d’inverno.

Ho voluto il freddo come metafora inversa che meglio si adatta al gelo ed all’oscurità di quegli abissi dell’animo umano che prescindono da qualsiasi ragione; ma l’ho voluto pure perché potesse ripropormi con maggior approssimazione - quasi sentendola sulla mia pelle - una parte, almeno, della sofferenza fisica patita da migliaia di vite umane che in quello stesso luogo furono tradotte con la forza e con l’inganno e lasciate con addosso soltanto un “pigiama a righe”.

Aushwitz è un luogo di pellegrinaggio, un immenso cimitero a cielo aperto dove il monito biblico “Memento, homo, quia pulvis es, et in pulverem reverteris” si è attuato con un irrituale passaggio di consegne, che ha affidato alla crudeltà degli uomini il potere di ridurre in cenere anzitempo i corpi di altri loro simili. Di quella cenere è intrisa la terra; aleggia ancora nell’aria, è posata sui muri, sugli alberi, sul filo spinato, E si appoggia pesante sul cuore senza necessità di attraversare i sensi.

È inverno, ma c’è il sole.

Un insolito cielo azzurro e terso per un inizio di gennaio fa da contrasto alla gravità di quel luogo che avevo immaginato cupo e triste. I caseggiati di mattoni rossi, che già furono caserme prima di diventare i famigerati “blocchi”, brulicano di vita, animati dalle figure e dai passi di corposi gruppi di visitatori che, come un docile gregge, seguono al passo una guida narrante. È tutto un andirivieni di persone d’ogni genere ed età, un passaggio di lingue che raccontano la stessa tragedia utilizzando idiomi differenti. Ed è quella la sola voce che si sente; il gregge è muto, ritratto nella pena suscitata dal racconto, rinchiuso nell’intimità di pensieri e sensazioni che forse avrebbero necessitato di tempi di riflessione e meditazione più lunghi davanti ad ogni singola parola, fotografia, oggetto, ricordo e che invece si interrompono al sopraggiungere di un altro gregge che incalza e scalza il precedente.

E, tuttavia, malgrado la fretta imposta da canoniche tabelle di marcia, si sente crescere ed inspessirsi ad ogni passo quel filo invisibile che lega la coscienza attuale alla memoria passata.

Davanti al cancello sormontato dalla beffarda scritta “Arbeit macht frei” sosta una bambina di 4 o 5 anni che la guarda col naso all’insù. Non so cosa le abbiano raccontato i suoi genitori di quel posto, cosa riesca a capire, come interpreti le parole della guida che ascolta attraverso le cuffie infilate sopra il suo cappellino. È lì, immobile, a scrutare quei caratteri che ondeggiano tra due fettucce di metallo. La foto che scatto la conserverà per sempre in quella posa, ferma a quell’età: l’immagine dell’innocenza di fronte alla porta dell’orrore, la purezza che resta fuori dal cancello oltre il quale la vita di altri piccoli innocenti è stata recisa.

È inverno ma c’è il sole.

È più il gelo nel cuore quello che si avverte che non quello esterno; è il gelo che doveva bastare a rendere indifferenti coloro che col solo gesto d’un pollice – destra o sinistra -decretavano la scelta tra un “ora” e un “dopo”, che equivaleva a una morte immediata nelle camere a gas o ad una più lenta, tappa finale d’una non-vita intermedia fatta di fatica, fame, freddo.

Di quella non-vita Aushwitz conserva tutte le tracce. Sono racchiuse in grandi teche a parete davanti alle quali lo sguardo scorre mentre i pensieri si impuntano: tonnellate di capelli raccolti in trecce o in mazzi; busti, stampelle, protesi; occhiali dalle montature talmente sottili che formano tra loro un groviglio inestricabile; panieri e valigie su cui sono impressi nomi ed indirizzi dove non sono mai giunti; pentole e stoviglie che hanno rappresentato “pezzi di casa” che, per nostalgia, genti ignare del proprio destino si erano portati appresso nel loro viaggio senza ritorno.

E scarpe, migliaia di scarpe d’ogni foggia e misura.

Penso alle strade, ai pavimenti, ai solchi di terra che hanno calpestato, al loro esser stati segno esteriore d’una condizione o meno di benessere, al loro esser serviti a guadare fiumi, ad attraversare sentieri di neve, a far posa in un giorno di festa. A quanto poi fossero diventati un bene prezioso e introvabile tra i prigionieri dei campi, che la sofferenza ed il bisogno avevano scorticato d’ogni sentimento di compassione e pietà, al punto che la morte d’un loro compagno poteva diventare un’occasione per contendersi ciò che non gli sarebbe più servito.

Ci penso, ricordandomi che proprio alla vigilia della mia partenza ho comprato un paio di stivali doposci che pensavo potessero servirmi e che invece sono rimasti intatti. E avverto allora la pochezza di tutti noi fortunati appartenenti a generazioni che le guerre e la fame l’hanno solo sentite raccontare, che di mancanze e privazioni estreme non abbiamo mai patito, che mai abbiamo avuto minacciato la vita. Che dimentichiamo quale grande privilegio sia la libertà.

La sensazione diventa ancora più acuta quando ci si sposta a Birkenau, a un paio di chilometri da Aushwitz.

Qui non servono guide né spiegazioni. Quel senso di morte che parla di sterminio incombe ancora oggi sull’immensa spianata dove si susseguivano le centinaia di baracche (di cui solo poche decine sono ancora in piedi) dove i prigionieri erano ospitati in condizioni estreme. Veri e propri depositi di stoccaggio, dove la merce umana, privata ormai d’ogni residuo di dignità oltre che d’identità, restava accatastata in attesa di smaltimento nelle camere a gas e poi nei forni crematori.

Al centro del campo, il lungo binario dove treni carichi di morte annunciata giungevano al capolinea.

Questo è il luogo in cui l’abominio ha toccato il fondo; dove il lato oscuro dell’animo umano ha preso il sopravvento inducendo ad azioni disumane.

È il luogo che induce a domandarsi in quale anfratto della mente possa covare tanta malvagità e dove si rintani quel demone capace di appropriarsi della ragione e spingere l’uomo a trasformarsi in bestia.

Questo è il luogo delle esistenze sospese: dei vecchi che non hanno più raccontato fiabe ai loro nipoti; delle donne che non sono mai state madri e delle madri che non hanno visto crescere i loro figli; degli uomini e dei ragazzi che non hanno più fatto pace con mogli arrabbiate o portato fanciulle all’altare; di bambini che, insieme ai giochi, hanno perso anche la loro spensieratezza ma senza esser diventati adulti.

È il luogo in cui l’umanità grida contro sé stessa, ricordandole la disperazione d’una strage spietata e l’ingiustizia di colpe non emendate.

È il “dove” autentico della memoria, attraverso cui, almeno una volta nella vita, è necessario che si compia un “viaggio”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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