7 settembre 2014

Caro non commercialista (spero)

A cura di Antonio Gigliotti

Cari amici,

in questi giorni sulle pagine del presente quotidiano è uscito un mio articolo sui dati esposti nel rapporto annuale «Paying taxes» della Banca mondiale, al quale ha fatto immediatamente seguito un editoriale inerente al medesimo argomento.

Ciò che mettono in luce i riscontri ai quali è giunta la Banca mondiale è l’esborso di natura fiscale che grava sulle imprese italiane. In sostanza, il rapporto (non io!) diceva che su 100 euro di utili realizzati da un’impresa, il 65,8% è destinato a imposte, tasse e contributi, in quanto il livello di tassazione delle imprese italiane è il più alto tra i Paesi europei analizzati. Un tale aggravio, in altri termini, mina non poco le capacità competitive delle aziende italiane. Andando più nello specifico, il peso maggiore individuato dal rapporto è rappresentato dai contributi che “costano” alle imprese quasi il 35% degli utili. L’altra componente è rappresentata dalla tassazione diretta, incluse IRPEF e IRES.

Questo era quanto scrivevo nell’articolo fiscale, ripreso in grandi linee e a mo’ di riflessione nel mio editoriale. È chiaro che non si tratta di numeri soddisfacenti, ma è pur vero che in quanto numeri, quindi frutto di analisi scientifiche condotte da un organismo bancario internazionale, ritengo che lascino margini ben ristretti per qualsiasi confutazione. E se confutazione ci dev’essere, allora dovrà essere rivolta alla Banca mondiale, non di certo a me che mi sono limitato a prendere i dati e commentarli, seppur con un approccio dal sapore amaro.

È dolente pensare che questa realtà, per quanto a nessuno piaccia, venga negata da chi dovrebbe avere titoli ed esperienza per riconoscerla come vera. Ma è proprio quello che è accaduto! Un lettore, attento e solerte, si è preso la briga di scrivermi per correggermi, sottolineando che forse mi è sfuggito il fatto che in Italia due imprese su tre non pagano tasse sugli utili perché affermano di non fare utili. E a sostegno della propria tesi, il lettore mi ha indirizzato a un articolo del 15 gennaio 2013, uscito su “Il sole 24 ore” a firma di Marco Mobili. Il pezzo, di quasi due anni fa, analizzava i dati diffusi il giorno prima dal Dipartimento delle Finanze sulle dichiarazioni Ires presentate dalle imprese nel 2011 e relativi all'anno d'imposta 2010. Esaminando le dichiarazioni Ires presentate nel 2011, i tecnici del dipartimento hanno evidenziato che un’impresa su tre si è dichiarata in perdita. E nello stesso articolo il giornalista metteva in guardia i lettori, chiarendo che il miglioramento registrato dalle dichiarazioni per l’anno d’imposta 2010 rispetto a quelle del 2009 non teneva comunque conto “della tempesta finanziaria ed economica prodotta dallo spread alla fine del 2011”.

Ma mettendo da parte dati che illustrano uno scenario dal quale ci distanzia più di un biennio, vorrei puntare l’attenzione su qualcosa di più recente, come ad esempio le sintesi dei dati di giugno 2014 circa le partite Iva, pubblicate dal MEF il 7 agosto scorso. Il documento chiarisce che a giugno dell’anno in corso sono state aperte 38.311 nuove partite Iva, registrando un calo tendenziale del 3,8%. Che significa? Che rispetto a giugno dell’anno scorso sono state aperte meno partite Iva. Meno aziende e meno lavoratori autonomi. Il calo è moderato, come lo definisce lo stesso MEF, ma c’è e non può essere ignorato. È anche vero che i settori nei quali si aprono nuove partite Iva hanno registrato buone percentuali, come il commercio dove a giugno v’è stato un numero di aperture pari al 24,5% del totale. E proprio lo stesso giorno, il 7 agosto 2014, l’Istat pubblicava il rapporto sulla demografia d’impresa, sottolineando (testuali parole) che: “sono circa 275 mila le imprese nate nel 2012, circa 10.700 imprese in più rispetto all'anno precedente. Il tasso di natalità si attesta al 7,0%. Sono oltre 316 mila le imprese che hanno cessato la loro attività. Il tasso di mortalità totale è invariato rispetto al 2011 (8%). Per il quinto anno consecutivo il saldo tra nascite e cessazioni (tasso netto di turnover) presenta un valore negativo (-1% rispetto al -1,3 del 2011). Nel dettaglio dei comparti, le Costruzioni presentano il più elevato saldo negativo (-3,0%)”.

Questi i dati, ora passiamo alle domande. Il mio solerte lettore, che mi ricordava di non essere in campagna elettorale (lo ringrazio, ma ne avevo già avuto il sentore!), dichiarava che “due imprese su tre in Italia tasse sugli utili non ne pagano per la semplice ragione che utili dicono di non farne”. Ecco, vogliamo credere ancora, caro lettore, alla leggenda metropolitana secondo la quale il popolo delle partite Iva sia composto da evasori? Ma mi faccia la cortesia, provi ad andare in un'azienda e vedrà se sono io a raccontare fantasie o a fare politica! Lei, caro lettore, vive in un altro mondo. Per il futuro eviti di commentare articoli o rimandare ad altri scritti se non sa di cosa sta parlando.

E questo è quanto.
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