23 settembre 2013

EVASIONE: DALLA CINA CON FURORE

A cura di Antonio Gigliotti

Cari amici e colleghi,
in questi ultimi giorni di sole di un autunno appena iniziato, il mio pensiero è ancora fermo su una questione che è tacciata da tutti alla stregua del più grande male del Paese: l’evasione fiscale.
Fra circa una settimana, ormai è più che certo, l’aliquota ordinaria Iva farà il suo balzello dal 21% al 22%, per quel che concerne la seconda rata Imu sulla prima abitazione non ci sono ancora decisioni concrete, in Italia nessuno investe, le imprese chiudono e le famiglie spendono di meno… Tuttavia vi è un sistema economico sommerso che produce un gettito che viene sottratto a quello ufficiale, non congiungendosi con esso nelle casse dell’Erario. Chi per sopravvivenza (molti, troppi a dire il vero) chi per furbizia, tutti questi evasori creano un vortice pericoloso di finanza occulta che difficilmente potrà essere rintracciata per intero dallo Stato. Lungi da me voler redigere un’apologia dell’evasore fiscale medio, quello che non paga alcune tasse o fa in modo di eludere per esigenza, perché non ci arriva davvero a mettere insieme il totale da versare allo Stato, ma non si può nascondere che ad oggi le pretese fiscali sono diventate esose ed estremamente pesanti. E dal primo ottobre, quando non si potrà più scampare al previsto aumento Iva, la situazione diverrà ancora più delicata, in quanto il nostro Paese entrerà a pieno titolo tra i più tassati della zona euro.
Eppure non è vero che gli stranieri non vengono in Italia e non investono nel nostro territorio. A quanto pare, il Belpaese non ha intimorito gli imprenditori del Celeste Impero che hanno creato lungo la nostra Penisola una vera e propria ‘zona industriale’. Fin qui nessuna obiezione, nel senso che qualsiasi attività produttiva che possa risollevare gli standard economici dell’Italia senza intaccarne gli equilibri è benaccetta. Purtroppo però recenti inchieste hanno portato a galla fatti ed eventi che illustrano quanto non sempre l’imprenditoria cinese rispetti gli accordi sia di concorrenza che di stampo fiscale. In sostanza, queste imprese, laboratori, attività commerciali e di ristorazione si sono inseriti all’interno del nostro tessuto economico sfruttandone i punti di forza, ma anche le lacune, dimostrando quindi una conoscenza del sistema molto approfondita. Un esempio? Ebbene, i controlli fiscali ad una azienda non arrivano prima dei suoi due anni di vita: la maggior parte delle imprese cinesi hanno (sulla carta) pochissimi dipendenti (spesso si possono contare su una mano) e chiudono entro il ventesimo mese dall’apertura, evitando così i controlli e spostando le energie sulla nascita di un nuovo soggetto economico. Le zone più colpite da questo cataclisma economico sono quelle della provincia di Prato, dove è risaputo che l’imprenditoria cinese ha ormai messo le radici. Lavoro nero, contraffazione, evasione fiscale e clandestinità sono i punti di forza di questa egemonia economica che, in silenzio, si sta ramificando a vista d’occhio. Si stima infatti che su circa 14 mila cinesi regolari presenti in quell’area della Toscana, ve ne siano altri circa 25 mila irregolari che lavorano nei vari laboratori. Purtroppo non esiste nessun patto di estradizione tra il nostro Paese e la Cina, quindi il più delle volte il decreto di espulsione viene ignorato e gli irregolari e i clandestini rimangono qui, sul nostro territorio nazionale, e a tornare a Pechino, nelle salde banche cinesi, è solo la ricchezza sommersa da essi prodotta. Si consideri, a tal proposito, che tra gennaio 2012 e luglio 2013 grazie ai controlli di circa 400 imprese cinesi, sono stati scovati ben 1.846 lavoratori in nero e clandestini, che hanno generato un’evasione a livello contributivo pari a 22 milioni di euro.
Il problema dell’imprenditoria cinese (quella marcia, non quella che rispetta le regole) è stato purtroppo ampiamente sottovalutato da chi avrebbe dovuto prendere provvedimenti ab origine.
Certo, dire che gli imprenditori cinesi in Italia non paghino le tasse sarebbe una generalizzazione gratuita, perché voglio sperare che non in tutti i casi sia così e che vi sia una buona parte di essi che vive in piena regola anche nei rapporti col Fisco. Tuttavia esistono dei dati che indicano in maniera chiara la reale esistenza del problema. Pare che le tasse maggiormente evase siano l’Irpef e l’Iva, vale a dire quelle che risultano maggiormente legate alle attività commerciali. Avete notato che nella maggior parte dei negozi cinesi non emettono lo scontrino? E, nel caso vi passi in mente la malsana idea di chiederlo, potreste impelagarvi in lunghe discussioni che, al sol pensiero, vi passa proprio la voglia di esser puntigliosi. Ebbene, tutto ciò ha generato un’evasione che da sola avrebbe potuto garantire la copertura di non pochi interventi (azzardo? Abolizione Imu, non aumento Iva…). I numeri infatti ci sono. Prima accennavo ai controlli sul lavoro nero e sui clandestini, ricordando che sono stati effettuati su 400 imprese che rappresentano appena un sesto del numero complessivo presente nella provincia di Prato. Ora, proviamo sola a immaginare cosa potrebbe venire fuori da una serie di controlli a tappeto. Se l’evasione contributiva di un sesto delle impresi presenti solo nell’area pratese è stata pari a 22 milioni di euro, a quanto potrebbe ammontare il dato complessivo?
Non mi azzardo a dare una risposta a un simile quesito, preferisco lasciarlo come monito e come riflessione per quanti hanno il potere di agire in tal senso. È giusto aprire le porte agli investimenti dall’estero, il piano approvato dal governo (‘Destinazione Italia’) segue proprio questa direttiva; tuttavia non mi piace assistere al declino dell’imprenditoria nostrana, del nostro ‘made in Italy’, del nostro artigianato, schiacciato dal Fisco, mentre chi si sa muovere tra le faglie del sistema si arricchisce producendo risorse che non rimarranno di certo in Italia.
Purtroppo tutto ciò è potuto avvenire perché, nel corso degli ultimi dieci anni, i governi italiani non hanno saputo progettare né difese contro le aggressioni imprenditoriali né soluzioni che potessero in qualche modo alleggerire il costo del lavoro, nello specifico, e la pressione fiscale, in generale. E se c’è qualcosa che chi ci governa avrebbe dovuto imparare dalla saggezza cinese, più che dalla evidente scaltrezza in campo imprenditoriale, è che “quando fai piani per un anno, semini grano. Se fai piani per un decennio, pianti alberi. Se fai piani per la vita, formi ed educhi le persone”.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata
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