La storia che sto per raccontare non è di questi giorni e si colloca, anzi, in un passato ormai quasi remoto. Tuttavia ha un valore straordinario ed attualissimo, alla luce del quale andrebbero forse riviste tante condotte e idee che, oggi, nonostante la loro dichiarata modernità, nascondono ancora pregiudizi stantii tali da risultare d’ostacolo a svolte determinanti.
Era il 1972, l’8 marzo, per l’esattezza.
Quel giorno a Roma, a Campo de’ Fiori – la piazza senza chiese, unica perciò legittimata a mandare al rogo gli eretici, ai tempi dell’Inquisizione, e di essa divenuta simbolo – si tenne una manifestazione che radunò molte donne. Tra loro c’era Mariasilvia Spolato, 37 anni, padovana, una laurea con 110 e lode, insegnante di matematica. Infilato al collo aveva un cartello che esibiva con orgoglio. C’era scritto "Liberazione omosessuale".
Infrangendo i tabù dell’epoca, Marasilvia, per prima tra tutte le italiane, si dichiarava pubblicamente lesbica, faceva scandalo ammettendo di amare un’altra donna.
Il suo volto, la sua voce, avrebbero dato vita a quelli che, più tardi, sarebbero stati i movimenti LGBT. Ma, allora, i tempi non erano ancora evidentemente maturi per un atto tanto rivoluzionario: immortalata con indosso quell’”abito”, la foto di Mariasilvia finì sulla copertina di Panorama. E la sua vita cambiò per sempre.
Fino a quel momento il suo era stato un attivismo solido e florido: aveva partecipato al ‘68 e nel 1971 aveva fondato il FLO (Fronte di Liberazione Omosessuale), seguendo l’idea che le lesbiche dovessero liberarsi dalla “doppia oppressione” che subivano sia perché donne sia perché omosessuali. Il movimento era poi confluito nel Fronte Unitario Omosessuale Rivoluzionario Italiano (FUORI) – il primo movimento gay italiano - e Mariasilvia, con Angelo Pezzana – attivista e giornalista -, aveva fondato l’omonima rivista, portavoce dell’organizzazione. A Roma, dove si era trasferita per insegnare, frequentava anche il Collettivo di Lotta Femminista di via Pompeo Magno (il movimento femminista romano); scriveva (fu lei a pubblicare “La prima poesia lesbica del neofemminismo italiano” e il libro “I movimenti omosessuali di liberazione. Documenti, testimonianze e foto della rivoluzione omosessuale”, che ancora oggi è considerato un caposaldo dei diritti civili; ma anche manuali di matematica editi da Zanichelli e adottati nelle scuole italiane) e realizzava reportage fotografici per comunicare il suo pensiero. Nell’aprile del 1972 era stata lei a lanciare l’allarme riguardo al convegno di sessuologia in programma a Sanremo sulla “cura dell’omosessualità” e così, grazie alla mobilitazione di “Fuori”, una manifestazione di lesbiche e gay arrivati anche dall’Inghilterra, dal Belgio e dalla Francia, era riuscita a farne chiudere anticipatamente i lavori.
Dopo quell’8 marzo, a causa dell’eccessiva esposizione mediatica che la foto apparsa su Panorama le aveva procurato, perse tutto: il Ministero dell'Istruzione la licenziò, dichiarandola “indegna” all'insegnamento; la famiglia la abbandonò e anche la donna che amava la lasciò.
In una intervista rilasciata sul finire dei suoi giorni raccontò: “pian piano ho finito i soldi, e da lì sono cominciate le mie storie. Dormivo da amici, perché non ero più in grado di pagarmi l’affitto. Vagavo di qua e di là, di città in città. La mia casa erano diventati i treni. Ormai mi conoscevano controllori e macchinisti di mezza Europa. Posavo il capo dove capitava. Mangiavo quello che riuscivo a procurarmi”.
Mariasilvia scivolò così, lentamente, verso i bordi della società, confusa tra i tanti invisibili clochard accampati per strada o sotto i ponti. Presenza silenziosa, anima persa. Dimenticata da tutti.
Continuava a rovistare nei secchioni dell’immondizia alla ricerca di libri, giornali e riviste da leggere, “perché sono preziosi”, diceva.
Altro non voleva, né cure, né soldi, men che meno d’essere affidata ad una struttura d’assistenza. Senza un fiato, senza un lamento, sopportava anche i maltrattamenti di chi per strada provava un gusto perverso nel tormentarla, arrivando persino a spegnerle addosso le cicche delle sigarette.
Nel 1990 l’OMS, rivedendo le precedenti edizioni del DSM (il manuale diagnostico dei disturbi mentali) cancellò l'omosessualità dall'elenco delle malattie mentali – com’era stata fino ad allora catalogata - definendola invece “una variante naturale del comportamento umano".
Ma era ormai troppo tardi per Mariasilvia, che aveva già pagato a caro prezzo la schiettezza delle sue idee.
Si era ammalata: una cancrena alla gamba. Solo allora aveva accettato d’essere ricoverata e curata e si era affidata ai servizi sociali che le avevano trovato una collocazione nella casa di riposo “Villa Armonia”, a Bolzano. Aveva però messo in chiaro da subito una condizione: non avrebbe rinunciato alla sua libertà, come del resto aveva sempre fatto, coerente a quel suo essere fiera e determinata con cui, anni prima, aveva osato dichiarare all’Italia intera il suo “altro” modo d’amare. Così, ogni giorno usciva dalla struttura e vi faceva ritorno solo la sera, con un nuovo carico di libri e i giornali che aveva raccattato qua e là. Solo tre anni dopo s’era convinta che poteva accordare fiducia al personale della struttura, e così aveva cominciato a prendere parte alle sue attività, scegliendo film da far vedere, le letture da consigliare e fotografando la vita e i volti dei suoi compagni.
È morta il 31 ottobre 2018, appena tre anni fa.
Se un quotidiano altoatesino ed un fotografo locale non ne avessero raccontato la storia, nessuno l’avrebbe conosciuta, nessuno avrebbe saputo del suo gesto eroico e rivoluzionario con cui, prima tra le donne, ha aperto una breccia nella barriera del pregiudizio e della discriminazione sessuale.
Sarebbe bene che tutti sapessero di lei, conoscessero Mariasilvia e tributassero i giusti onori e il dovuto ricordo ad una pioniera del movimento per i diritti delle persone omosessuali; che mettessero a confronto il suo sacrificio con la viltà di chi ancora oggi, a quasi cinquant’anni dalla sua coraggiosa rivelazione, discrimina e perseguita gli omosessuali e di un Paese che non è in grado di ammettere leggi che proteggano chi, a causa del proprio orientamento sessuale, diventa bersaglio di violenza.
E di tanti che ancora discutono di “genere” quando si tratta di amore.