Omicidi, femminicidi, uxoricidi, fratricidi, parricidi, matricidi…. I crimini di sangue hanno tutti lo stesso suffisso, quel “-cidio”, derivante dal tema del verbo latino caedĕre, il cui significato esalta la nota comune a tutti: “tagliare”, “uccidere”.
Questo incipit, tuttavia, non vuol essere un mero esercizio sintattico, quanto piuttosto, la drammatica constatazione della frequenza con cui le sonorità di quei lemmi popolino la cronaca, al punto d’esser diventati una sorta di vera e propria ricorrenza.
Ogni settimana – se non addirittura meno – i notiziari riportano un fatto di sangue non riconducibile a stragi, terrorismo, malavita o incidenti ma collocati in contesti familiari in cui a turno le vittime sono madri, padri, mogli, figli e fratelli.
L’ultimo in ordine di tempo (ma non escludo che altro sarà accaduto tra il momento in cui scrivo e quello in cui questo scritto sarà letto) è il sororicidio di Genova, le diciassette coltellate con cui Alberto Scagni qualche sera fa ha ucciso sua sorella Alice, dopo averla attesa sotto casa per otto ore.
Era andato da lei a chiederle soldi per l’ennesima volta, evidentemente preparato ad un rifiuto giacché c’era andato armato di coltello, con l’intento quanto meno di intimorirla se non proprio d’arrivare a quel tragico epilogo. Ciò che pare certo è che Alberto non fosse una persona serena ed equilibrata, poiché da un po’ di tempo aveva preso a minacciare i suoi familiari e ad avere comportamenti violenti.
Il “copione” di questa vicenda non è molto dissimile da tanti altri: cambia il grado di parentela delle vittime, cambia l’arma utilizzata, cambia la modalità d’esecuzione del delitto, ma, di fondo, non cambiano le ragioni. Le si può chiamare in mille diversi modi: invidia, rabbia, gelosia, ma la matrice unica, ricorrente ed inconfondibile è sempre la stessa: la solitudine, quella che può portare alla follia.
C’entra sempre la solitudine: quella insopportabile percezione di abbandono che può manifestarsi nelle più varie sembianze, siano esse quelle di una madre abbandonata alla sua depressione o di un marito che fatica ad accettare l’abbandono di una separazione o di un fratello abbandonato ad un’esistenza nulla.
Con ciò, si badi bene, non si vuole affatto dare una giustificazione agli assassini né sminuire la portata d’ogni tragedia, quanto piuttosto contenere l’accanimento (e lo sciacallaggio) mediatico che ad essa segue e che spesso nemmeno colpisce il bersaglio giusto.
Nella vicenda di Genova ci sono due elementi che colpiscono: il primo è il profluvio di insulti e maledizioni che, insieme alla caccia agli indizi, si sono riversati sul profilo Facebook di Alberto Scagni, dopo che qualche giornale – ricavatene le foto impiegate per i propri articoli - ha rivelato trattarsi di un profilo aperto. Mi ci sono affacciata anch’io, confesso. Ma ciò che in centinaia hanno preteso di ricavare elucubrando su ogni singolo post, io l’ho trovato in bella vista sulla prima pagina, sotto la dicitura “In breve”: “Sono pieno di tatuaggi. Abito al quarto piano, da solo. Disoccupato. E l'indirizzo è nella bio”. In una parola: solitudine, quella che induce a marchiare la propria pelle perché non c’è altro spazio dove lasciare tracce di sé; che indica coordinate ben precise per dire al mondo “ci sono, vedetemi, venite a cercarmi”; che precisa una condizione in cui ogni giorno si consuma nella desolante ripetizione di ore inoccupate, uguali a sé stesse. E le foto lo confermano: eccetto quell’unica (che fa da sfondo ad ogni articolo pubblicato) in cui Alberto è immortalato insieme ad Alice nel giorno delle sue nozze, non ce n’è alcun’altra che lo ritragga con qualcuno. C’è sempre e “solo” lui.
L’altro elemento è proprio quel “bersaglio mancato” verso cui avrebbe ragione di dirigersi il biasimo mediatico. E si trova anch’esso in una frase altrettanto rivelatrice: “Domenica mattina non c'erano volanti da mandare, ma domenica notte per non farmi vedere il corpo della mia bambina c'erano 30 agenti.”
A dirla è la madre di Alberto e Alice, in un addolorato sfogo in cui denuncia una colpa che non è meno grave di quella commessa da suo figlio: l’incuria.
Alberto stava male; la sua solitudine era maturata, trasformandosi in rabbia, violenza, mania di persecuzione. Negli ultimi due mesi i parenti si erano più volte rivolti alla polizia segnalando il suo comportamento e le minacce che continuavano a ricevere; il 112 era stato chiamato addirittura cinque volte nei quattro giorni precedenti l’assassinio. La risposta era stata un "Non facciamola tragica”.
Anche il centro di igiene mentale contattato affinché Alberto fosse sottoposto a visita psichiatrica aveva concesso un appuntamento di lì ad un mese.
Tutto troppo tardi.
C’è allora anche questo da considerare quando con eccessivo accanimento ci si scaglia contro un qualunque colpevole: che è sempre troppo tardi quando a scandire la misura del tempo è ciò che avrebbe potuto farsi; e che il giudizio di colpevolezza non può che essere inappellabile nei confronti di chi con le sue azioni, si rende responsabile di un dramma, ma lo è altrettanto nei confronti di chi corresponsabile diventa per via dell’inazione.