Samantha aveva 35 anni e un passato di sofferenza e violenza che, da quando aveva incontrato Antonio, stava finalmente cominciando a dimenticare.
Aveva cinque figli, cresciuti con fatica e amore, la ricetta tipica di ogni madre, che nel suo caso però, si accresceva d’un ingrediente ulteriore: un impegno costante di veglia e protezione, imposto dalla necessità di contrastare le insidie di un uomo violento – padre di tre di quei figli – dalla cui rabbia e cieca sete di vendetta doveva tenere al riparo anche se stessa.
E c’era infatti mancato poco che morisse, quella volta che lui s’era presentato a casa con un mazzo di fiori ed una pistola e, non essendo riuscito a riconquistarla con l’uno, aveva pensato di far ricorso all’altra, sotto il dettame d’un codice d’onore che impone “se non mia, allora di nessun altro”.
Era sopravvissuta per miracolo ad una pallottola sparatale in testa, salvata da un delicato intervento chirurgico che aveva assicurato lei alla vita e l’ex marito al carcere, con una condanna per tentato omicidio.
Poi, con Antonio, aveva ritrovato la serenità: l’aveva conosciuto tramite una dei quelle App di incontri che spesso possono rivelarsi insidiose o deludenti e che, invece, nel suo caso, l’avevano consegnata ad un uomo affettuoso e premuroso, che si era preso a cuore l’impegno di guarire le ferite del suo e di far da padre a quei cinque bambini orfani d’amore.
Un mese fa si erano sposati. La vita sorrideva su quella nuova casa così ricca di ritrovata serenità; ma Samantha aveva bisogno ancora di una qualcosa per rendere perfetta quell’armonia: un piccolo ritocco appena, non alle tende, alle tinte delle pareti o alle siepi del giardino, ma al suo aspetto, per offrire in dono al suo amato una bellezza di cui poter andar fiero; un piccolo intervento che, rimodellando le linee del quel suo corpo provato dalle gravidanze e trascurato per resa e paura, le restituisse consapevolezza di sé, dei suoi anni ancora in fiore, consentendole di essere “felice ancora di più”.
Ma per farlo, s’era affidata ad una mestierante, digiuna di prudenza e di sapere; così, quelle iniezioni di silicone che, per 1200 euro, le avevano promesso forme più floride ed invidiabili, s’erano rivelate un veleno che, in pochi minuti e tra dolori insopportabili, l’avevano ricondotta tra le braccia della morte da cui una volta era sfuggita, quasi che il destino le avesse concesso soltanto una proroga ad un termine già scaduto.
Ed eccola, puntuale, la polemica; ed eccolo, pronto, lo scontro.
Da una parte, c’è chi vede in Samantha il simbolo delle tante donne, anche giovanissime, vittime di modelli inarrivabili, condannate all’infelicità perenne perché incapaci di eguagliare quei canoni di bellezza che le vorrebbero sempre “un po’ di più” di ciò che sono, che le fanno sentire non abbastanza desiderate se non assomigliano a qualche idolo preconfezionato; non abbastanza competitive se non hanno certe caratteristiche estetiche di tendenza; non abbastanza soddisfatte di sé stesse se difettano di qualche centimetro o di qualche misura. Non abbastanza e basta.
Samantha come emblema di quell’insoddisfazione cui si autocondanna il genere femminile quando, pur sventolando il vessillo dell’emancipazione e dell’indipendenza, di fatto soggiace ad un autoindotto modello dispotico o a brame maschiliste, col risultato di tendere ad operazioni di rottamazione in cui, a discapito della genuinità e dell’autoconservazione, si accetta di sostituire parti di sé malriuscite con pezzi di ricambio che promettono la perfezione. Costi quel che costi.
Dall’altra, c’è chi in maniera più cinica e realistica, accusa ogni singola Samantha per la sua imprudenza o stupidità, senza volerla considerare figura rappresentativa di un’intera categoria o di un intero genere. Piuttosto, puntando il dito contro chi generalizza episodi così drammatici per rispolverare la consueta retorica delle donne vittime di un pregiudizio di inferiorità invece che avere l’obiettività di riconoscere che il difetto è intrinseco: è strettamente connessa all’intelligenza della singola persona la capacità o meno di anteporre traguardi di carriera o soddisfazioni intellettuali all’immagine incorniciata d’un modello estetico.
Ma stavolta la verità - com’è bene che sia sempre - va forse cercata nel mezzo, senza generalizzazioni ma pure senza condanne singole troppo spinte, giacché il solo reale imputato nel processo mediatico a Samantha, è evidente che non possa essere individuato nella sciocca dipendenza da falsi idoli, nell’imitazione di un iconico modello, nel riflesso di uno specchio, ma, più tragicamente, in un irreprimibile e necessario bisogno – terribilmente umano – di voler essere felice.
Quello si, ad ogni costo.