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Bunker Kiev

Autore: Ester Annetta
«L’allarme oggi ha suonato di nuovo. Qui sotto c’è posto per 30 persone. Ti guardi intorno: in tutta Kiev ci sono 4984 bunker; oggi ti è toccato questo».

Inizia così “Bunker Kiev”, il monologo ideato e diretto da Stefano Massini, definito da lui stesso ‘un atto politico di teatro civile’: un incipit diretto e lapidario, che investe di colpo ciascuno spettatore – trenta, appunto – coinvolgendolo immediatamente in un racconto che di teatro, inteso come finzione, ha davvero poco, giacché è la narrazione cruda ed autentica di ciò che realmente accade ormai da più di un anno in Ucraina.

Il progetto è iniziato a metà marzo e si concluderà a metà maggio al Teatro La Pergola di Firenze, o, meglio, nei suoi sotterranei, che durante la Seconda Guerra Mondiale sono anch’essi serviti come rifugio dai bombardamenti.

Spinta dalla curiosità verso un’idea tanto originale, sono partita da Roma appositamente per essere tra quei trenta ‘spettatori/rifugiati’, proprio nel giorno in cui una paralisi quasi totale del traffico ferroviario ha reso il mio breve viaggio una vera e propria odissea.

Ma ciò cui ho assistito ha ben ripagato il disagio e la difficoltà dell’impresa, donandomi 50 minuti di verità durante i quali, pur nella consapevolezza d’essere parte soltanto di un racconto e non di un reale accadimento, l’immedesimazione è stata totale, assoluta e convincente.

Un foglietto distribuito all’ingresso del teatro raccomanda di muoversi con estrema attenzione e cautela e di restare sempre in gruppo. Già questa avvertenza fa parte del ‘protocollo’ di quanto di lì a poco accadrà, prima d’essere condotti fuori, sulla pubblica via, per essere poi imbucati, pochi metri più avanti, in un passaggio sotterraneo che, attraverso corridoi poco illuminati, sbuca infine in una stanza senza aperture, con le pareti scrostate segnate da scritte e numeri, schiarita appena dalla flebile luce di una lampadina che pende dal soffitto.

Lo spazio di quella stanza è occupato soltanto da panche, disposte tutte intorno ad una centrale su cui siede immobile una donna dall’aria grave, vestita di nero.

Appena il tempo di prendere posto, smarriti e confusi, e poi silenzio.

«L’allarme oggi ha suonato di nuovo. Qui sotto c’è posto per 30 persone. Ti guardi intorno: in tutta Kiev ci sono 4984 bunker; oggi ti è toccato questo. Vi siete spinti dentro, uno sull’altro; nel bunker il momento peggiore, sempre, è quando devi entrare».

Esordisce in questo modo Anna. È ferma, nell’atteggiamento austero di chi deve catturare l’attenzione ma, e al tempo stesso, desolato e consumato di chi in quello stesso momento non è più attrice ma testimone diretta - lei che ucraina lo è davvero – di un dramma autentico.

«L’allarme oggi ha suonato di nuovo. Qui sotto c’è posto per 30 persone. Ti guardi intorno: in tutta Kiev ci sono 4984 bunker; oggi ti è toccato questo»: la frase diventa il ritornello del suo prezioso monologo, fatto di storie vere, raccolte tra chi, sotto i bombardamenti, le discese nei bunker le vive quotidianamente, immaginandole come una parentesi “che appena la apri devi chiuderla” perché la sola cosa che si desidera quando si è lì sotto è di uscirne prima possibile. Vivi.

Quel racconto non è fantasia; è il mosaico di frammenti di vita, di esistenze vere che noi ‘spettatori della guerra’ non consideriamo: siamo tutti portati a sentirla come una condizione globale, uno status di cose generale in cui i dettagli sfumano. E invece i dettagli sono proprio le singole vite, il peso che bombe e armi hanno sull’esistenza di ciascun individuo; le macerie di case, di relazioni, di sogni andati distrutti; la disperazione dei vecchi che non avranno più il tempo di ricostruire e dei giovani che saranno invecchiati a loro volta prima d’aver visto riparato ogni cosa.

La discesa nel ‘Bunker Kiev’ è un passaggio dal percepito alla consapevolezza; è un’immersione totale tra le sensazioni, i rumori ed i pensieri che scandiscono l’attesa di chi nei bunker di Kiev trova reale rifugio.

La prima cosa che bisogna fare quando ci si nasconde, non appena la vista si abitua al buio, è guardare i visi degli altri che si trovano in quello stesso luogo. “Guardatevi” – esorta Anna, interrompendo il suo racconto – “chi siete?”. È ciò che ci si domanda con più urgenza quando si scende in un bunker, giacché “quelle trenta facce potrebbero essere quelle con cui ti tocca morire”.

La seconda urgenza è quella di individuare l’anello debole tra tutti, l’individuo ‘Oddio, no!’ che potrebbe complicare quel soggiorno forzato: il bambino troppo piccolo che potrebbe attaccare a piangere senza sosta: Oddio, no; l’uomo con la flebo attaccata al braccio: Oddio no; la donna incinta prossima al parto: Oddio no.

E poi c’è anche il bisogno di fuga: non quella reale, che sarebbe impossibile; ma quella illusoria, che porta a staccarsi dalla violenza e dalla morte che incombono là fuori aggrappandosi a qualunque cosa che possa significare esistenza e resistenza. Allora ecco la vecchina che porta con sé il suo libro di ricette; l’uomo che recita poesie o intona un canto e tutti gli vanno dietro, superando con quelle note sempre più alte persino il boato delle bombe; i bambini della scolaresca che sono scesi tutti in fila con in testa un cappello rosso a punta perché le maestre, per rassicurarli, hanno detto che sarebbero scesi in una miniera come i nanetti di Biancaneve a cercare diamanti.

E così tutti vorrebbero essere allo stesso modo: avere in mente la ricetta di un timballo o in testa un cappello rosso per cancellare tutto l’orrore che c’è intorno.

«L’allarme oggi ha suonato di nuovo. Qui sotto c’è posto per 30 persone. Ti guardi intorno: in tutta Kiev ci sono 4984 bunker; oggi ti è toccato questo».

Ogni singola parola di quel racconto penetra sottopelle, si insinua tra le viscere e l’anima, scuotendo con forza d’un terremoto. Così tutti sobbalzano nel sentire, improvviso, il boato d’una esplosione, mentre la luce trema. Si sa perfettamente che si tratta di un effetto sonoro, eppure in quel momento è vero: fuori c’è la guerra e in trenta sconosciuti ci si trova rintanati insieme sottoterra, possibile anticamera d’una tomba.

La morte è un sorriso dentro un bunker con un cappello rosso da gnomo in testa e davanti un libro di ricette”.

Il racconto finisce così; la narratrice si alza e si avvia verso un cunicolo in fondo, che sembra ingoiarla. La si segue con lo sguardo, trattenendo a stento l’impulso di richiamarla.

Restano il silenzio e l’attesa, come se si sperasse in un diverso epilogo: qualcosa di lieto che spezzi quella tensione. Ma non accade. Solo immobilità e pensieri diventati pesanti come il soffitto scuro che incombe sopra le teste.

Nessun applauso.

Possiamo uscire, ora”. La voce della maschera che invita a seguirla rompe l’incantesimo, restituendo ciascuno ad una realtà che però stenta a riconquistare i suoi confini.

Fuori, alla luce, all’aria, c’è la vita di sempre, fatta dei suoni e dei colori d’una città integra e viva.

Ma quel pugno nello stomaco, così ben assestato da parole semplici e potenti, duole ancora. E lo farà a lungo.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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