È esperienza comune, tra quanti l’hanno studiata ai tempi di scuola, che della Divina Commedia ad appassionare è senz’altro la prima Cantica, l’Inferno, mentre risultano più ostiche la lettura e la comprensione del Purgatorio e, soprattutto, del Paradiso.
Di quest’ultimo, in particolare, è ben poco ciò che resta impresso a memoria oltre allo splendido verso finale. Ma la conclusione è nota: il XXXIII canto raccoglie la mirabile visione di Dio, la sua immensità, l’unicità potente in cui è “legato con amore in un volume / ciò che per l’universo si squaderna” e che Dante, giunto così al termine del suo straordinario cammino, fatica a descrivere con le sole parole.
È forse proprio da questa stessa ammissione del sommo poeta che ha tratto ispirazione l’esperimento – ardito e originale – portato in scena da Elio Germano che, nella stesura della drammaturgia del suo “Paradiso XXXIII” (andato in scena la scorsa settimana al teatro Ambra Jovinelli di Roma e ancora in calendario in altri teatri d’Italia), pensato in occasione del settecentesimo anniversario della morte di Dante e delle sue celebrazioni– ha dato vita ad una esperienza di percezione aumentata in cui i suoni e le luci sembrano avere il ruolo di sostenere e a tratti colmare ciò che sfugge alle parole.
Da solo, su un palcoscenico nudo, accompagnato da un continuo gioco di luci stroboscopiche e dalle atmosfere suggestive evocate dalle tastiere e dai suoni campionati del maestro Teho Teardo e dalle corde della viola di Ambra Chiara Michelangeli e del violoncello di Laura Bisceglia, Germano non ha replicato una delle tante letture già tanto magistralmente interpretate da predecessori quali Carmelo Bene o Roberto Benigni, ma ha dato vita ad una vera e propria interpretazione, intimista e sofferta, tesa a restituire al pubblico la sensazione dell’angoscia di Dante posto di fronte all’impossibilità di riuscire a comunicare a parole la visione del Divino che era stato ammesso a contemplare.
L’incedere della declamazione è dunque lento, la scansione delle parole è a tratti sussurrata e sospirata, accompagnata da prese di fiato che evocano affanno e tensione, ma anche estasi e commozione.
La linea interpretativa dell’attore si muove lungo i due momenti in cui si divide il canto, sottolineandoli con la variante di pochi segni evidenti ma tuttavia di grande efficacia.
La prima parte, dedicata alla preghiera di San Bernardo alla Vergine, lo pone al centro della scena, incappucciato e seduto in terra, le mani al cielo, in una penombra in cui la sua sagoma è solo a tratti messa in rilievo dallo sfondo indefinito e luminoso proiettato alle sue spalle, in una staticità apparente in cui si avverte tuttavia l’inizio della tensione del momento successivo.
Ed è infatti questo a popolarsi prepotentemente di suoni, luci, stimoli sensoriali nel mentre che accompagnano la visione del Divino concessa al poeta. Qui dunque l’attore esce dall’ombra e, al centro d’un taglio di luce, accenna ad avanzare verso il pubblico, come se volesse chiamarlo a testimone del suo sgomento, confessargli la propria impotenza nel descrivere ciò che ha veduto, che è meno di quanto potrebbe riferire un bambino, «un fante / che bagni ancor la lingua alla mammella».
Poi la visione viene rievocata; l’attore/Dante ora è di spalle al pubblico e guarda sul fondo del palcoscenico dove le immagini e le luci diventano la rappresentazione del suo sentire: nella luce divina vede riflesso il cambiamento che si opera dentro di sé; ciò che lui crede di vedere con la vista è in realtà ciò che vede la sua interiorità. E così si dispiega il mistero della Trinità, che, così come è descritto nel canto, è rappresentato sullo sfondo del palco dal bagliore di tre cerchi «di tre colori e d’una contenenza», ossia delle stesse dimensioni e di colori diversi. Dante si sofferma a guardare il secondo – il Figlio – che pare il riflesso del primo - il Padre – e gli pare di vedere al suo interno un’immagine umana. E così è: da quei cerchi danzanti proiettati sullo sfondo si stacca la sagoma di un uomo.
I sensi, la vista e l’udito, sono prepotentemente sollecitati in quel tripudio finale, che cala lo spettatore nell’atmosfera che alla parole manca di saper creare e che riproduce quella folgorazione finale che consegna a Dante la consapevolezza, in una sorta di rapimento mistico che infine lo lascia senza forze, incapace di ricreare con l’immaginazione ciò che ha veduto.
Ma il suo desiderio di conoscere è ormai pienamente appagato da quell’amore divino che muove ogni cosa, «il sole e l’altre stelle».
Ed è questa consapevolezza che l’attore, confidando nell’impresa ambiziosa e visionaria di supportare con la modernità un testo antico, ambisce a consegnare al pubblico, quasi a voler riempire l’opera del sommo poeta nelle parti che, per suo stesso dire, le parole non colmano, tanto da doversi affidare alle immagini:«Qual è colui che sognando vede/che dopo ‘l sogno la passione impressa/rimane, e l’altro a la mente non riede/cotal son io, ché quasi tutta cessa/mia visione, e ancor mi distilla/nel core il dolce che nacque da essa./Così la neve al sol si disigilla;/così al vento ne le foglie levi/si perdea la sentenza di Sibilla.»
Una lettura inedita e ardita quella offerta da Elio Germano, che tuttavia non scade nell’eccesso né snatura i contenuti, mantenendo anzi inalterata l’autenticità dei versi e la loro lirica pur nell’esuberanza scenica.