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Dagli errori agli orrori

Autore: Ester Annetta
Il 19 ottobre scorso, a Tel Aviv, in visita a Netanyahu, il presidente americano Biden aveva fatto un’accorata raccomandazione: “Comprendiamo la vostra rabbia, ma non commettete i nostri errori dopo l’11 settembre”. Un’invocazione, quasi, che pronunciata dal presidente di una potenza che, negli anni, in maniera diretta o indiretta, ha mostrato più spesso il suo volto guerrafondaio che non quello pacifista, è stata di grande impatto.

A distanza di poche settimane dall’attentato alle torri gemelle, infatti, gli Stati Uniti avevano aggredito militarmente l’Afghanistan e, due anni dopo, col pretesto della presenza (di fatto non vera) di armi di distruzione di massa nel suo territorio, anche l’Iraq.

Vent’anni dopo, nell’agosto del 2021, l’occupazione americana in Afghanistan è stata tolta e, alla resa dei conti, il risultato è stato quello di una guerra in cui hanno perso tutti: gli Stati Uniti che hanno sprecato milioni di dollari nell’impresa; l’Afghanistan, che si è ritrovato un paese distrutto, con centinaia di migliaia di vittime tra la popolazione civile; e le donne afghane, che, col ritorno dei talebani, sono state riportate indietro nel tempo, ad un’epoca buia, che le ha private di dignità e valore.

Ma né questa lezione né quell’appello sono serviti.

Il governo israeliano non ha resistito alla tentazione della vendetta e l’ha fatto abbattendosi sulla già martoriata striscia di Gaza con un’atrocità tale che, in poche ore, ha superato – in numero di vittime – quella commessa il 7 ottobre da Hamas.

Una conta destinata a crescere di giorno in giorno, con l’evidenza sempre più massiccia di vittime tra i bambini: un’autentica strage degli innocenti, ancora più cruenta e spietata di quella del racconto biblico, cui si aggiunge una altrettanto drammatica strage di civili, che solo a voler negare l’evidenza potrebbe non definirsi pulizia etnica.

È proprio questo l’orrore più grande, che discende da quel primo errore (di non aver vinto la tentazione della vendetta) e si traduce a sua volta in altro errore, ove venga visto soltanto come un conteggio di ‘vittime naturali’ di un conflitto bellico piuttosto che come un nuovo olocausto. Perché è di questo che innegabilmente si tratta, quando dalla guerra per la conquista di un territorio si passa a quella per l’affermazione della supremazia di una etnia sull’altra.

Gli ebrei hanno avuto la Shoah, i palestinesi hanno avuto la Naqba: “catastrofe”, in entrambe le lingue. Ma la memoria di ciò che è stato non può continuare a giustificare l’aggressione attuale, né da un lato né dall’altro. Dovrebbe essere anzi il monito a non ripetere quelle sciagurate gesta, a non immolare vittime innocenti che, sotto quella generica etichetta, raccolgono non numeri, ma singole storie di uomini e donne, di madri, mariti, amici, figli.

Per le vittime civili non contano le bandiere, sono tutte morte allo stesso modo: da innocenti, senza colori e simboli, senza che più importi se indossassero la kippah o la kefiah.

I bambini, poi, piangono allo stesso modo. La disperazione dei loro lamenti e delle loro urla, il peso delle loro lacrime, non sono diversi nelle due terre divise dal confine di Gaza. Tutti hanno paura di morire allo stesso modo. E tutte le madri, da ambo i lati, provano a proteggerli nello stesso modo: facendo da scudo con il proprio corpo, scrivendo i loro nomi sulle braccia perché possano ritrovarli ed identificarli in caso di bombardamento, provando ad inventare storie che possano consolarli in mezzo a tutta quella devastazione.

Ma questo, agli uomini che sganciano bombe, che premono grilletti o che strappano linguette non importa.

Non importano i corpi dilaniati, i pezzi di arti che mani pietose di padri e madri cercano di ricomporre per conservare integro il ricordo del figlio che hanno perduto.

Non importano gli ospedali distrutti, dove medici infaticabili continuano ad operare con strumenti di fortuna, senza disinfettanti e senza macchine, amputando arti senza anestesie.

Non importa la fame, non importa la disperazione, non importa la tragica rassegnazione di chi ha perso tutto e non teme più neppure la morte, ma soltanto il modo in cui morirà: se il suo corpo resterà intero o esploderà in frammenti che si spargeranno tra le macerie.

Sarà questa l’ennesima guerra in cui, al di là delle cronache della Storia, saranno risultati ancora tutti perdenti.

Perché si perde sempre ogni volta che ci si difende con la violenza, si dimentica l’empatia verso il prossimo, si seminano sofferenza e dolore, si calpestano i diritti umani.

Saremo pendenti anche noi tutti, che dai nostri comodi divani, di fronte ad una scatola parlante, avremo dispensato giudizi su torti e ragioni, su aggressori e aggrediti, ammettendo così, ancora una volta, che l’orrore discenda come diretta conseguenza dell’errore di considerare le guerre soltanto come una questione di geopolitica, piuttosto che ricordare la priorità che spetta alle persone e al senso di umanità.
 © FISCAL FOCUS Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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