I tre calciatori della nazionale finiti nel giro delle scommesse illegali.
I fuorionda di Andrea Giambruno.
L’arresto dell’ex giudice Silvana Saguto.
Sono queste le tre vicende che hanno ampiamente tenuto impegnati i notiziari negli ultimi giorni, restando seconde (e talvolta neanche) soltanto agli aggiornamenti sulla crisi in Medio Oriente.
Si tratta di storie diverse, incastonate in contesti altrettanto lontani tra loro; eppure sono avvicinate da un comune denominatore, che non è un tratto caratteristico interno, insito nella loro tessitura, ma, all’opposto, proviene unicamente da quelle finiture argomentative concesse ad un’opinione pubblica ormai sempre più spinta nell’emettere verdetti, prima e fuori dai luoghi realmente deputati a tale compito.
Ognuno dei protagonisti di quelle vicende, infatti, ha già subito un giudizio e una condanna in un processo mediatico che, con sempre maggior evidenza, quasi pretende di sostituirsi - o quanto meno di influenzare - quello giudiziario. E solitamente questo accade in un tempo brevissimo e con una rapidità molto maggiore rispetto a quanto accade nei tribunali.
Del resto è sempre più ricorrente che alcune notizie si diffondano tra la stampa e i notiziari prima ancora di giungere ai diretti interessati (come spesso è accaduto con certe informazioni di garanzia, ordinanze di custodia cautelare o fermi di cui quei canali hanno saputo prima ancora che fossero notificati agli stessi indagati), agevolando, così l’instaurazione di giurie popolari che, più frequentemente, sono vere e proprie gogne su cui è esposto il bersaglio di turno.
Nella vicenda del calcioscommesse c’è un Fagioli, che si è autodenunciato (e che la giustizia sportiva ha immediatamente sanzionato), c’è un Tonali, che ha cambiato la sua originaria versione dei fatti, dichiarandosi solo in un secondo momento coinvolto in scommesse sul calcio (venendo perciò a sua volta sanzionato) e c’è uno Zaniolo che (almeno finora, mentre scrivo) resta invece ancora fedele alle sue prime dichiarazioni di aver, si, scommesso ma solo su poker e blackjack. A prescindere da come si siano evolute le vicende e le confessioni nel corso delle settimane, resta però il fatto che, sin da subito, il circo mediatico non ha concesso il beneficio del dubbio nemmeno a chi dapprima (o tuttora) ha negato un proprio coinvolgimento, disattendendo a priori quella presunzione di innocenza che l’art. 27 della nostra Costituzione in primis (ma anche l’articolo 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’articolo 48 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea e l’art. 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo) pone a fondamento d’ogni giusto processo. È bastato che i tre nomi si associassero a far si che anche le singole posizioni fossero accomunate e confuse, consentendo immediatamente a siti web, popolo social, ma anche agli ordinari canali d’informazione di considerare il reato già accertato.
Ma non è tutto. La condanna dell’opinione pubblica – che non ha ovviamente risparmiato neppure il protagonista della seconda vicenda (prontamente processato come stolto, sessista, arrampicatore sociale) né l’ex magistrato dell’ultima (che, in verità, una condanna giudiziaria l’aveva già parzialmente avuta, sebbene restasse ancora in piedi la parte di processo relativa alla determinazione della pena) - è spesso agevolata e favorita da forme di spettacolarizzazione delle vicende che frequentemente si collocano ai limiti del lecito e dell’etica.
E, difatti, tanto i fuorionda di Giambruno (non certo casuali) trasmessi da Striscia la notizia, quanto l’arresto in diretta dell’ex giudice Saguto, che il figlio ha tentato di nascondere alla telecamera coprendola col proprio corpo, testimoniano un modo di fare giornalismo che sfiora quasi lo sciacallaggio, confliggendo palesemente con il rispetto del diritto alla riservatezza e la tutela della dignità delle persone, che vanno sempre e comunque salvaguardate, al di là delle loro colpe, presunte o accertate.
Il diritto di cronaca non può prescindere da tali priorità, non può violentare altri diritti; la prerogativa dell’informazione è quella di riferire la notizia, di riportarne i contenuti ed i risvolti, senza amplificarli con la platealità della forma con cui si offrono, che nulla aggiunge, di fatto, alla narrazione.
La spettacolarizzazione che, invece, governa con sempre più evidenza l’informazione, ne denuncia la realtà squallida e dissacrante: essa non è più strumento e veicolo di conoscenza, ma una merce, come tale soggetta alle regole di mercato, dove a prevalere è sempre la quantità - cioè il guadagno, l’audience, i numeri - a fronte della qualità, cioè il rispetto di principi normativi ed etici.
Perciò, se il mercato vuole un circo o una gogna, è questo che viene servito, finendosi così per allestire palcoscenici virtuali dove l’esibizione del colpevole è talvolta più esecrabile della sua colpa.
Con buona pace dei diritti, delle libertà e della Costituzione che li difende.