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Дети

È un titolo insolito, d’impatto e forse anche un po’ provocatorio.

Autore: Ester Annetta
A meno che non si abbia una qualche dimestichezza con quello che è pur sempre il terzo alfabeto ufficiale dell'Unione europea, non è semplice saper leggere e pronunciare il cirillico che, come tutti gli alfabeti fatti di segni e lettere diversi da quelli impiegati nella scrittura alfabetica in senso stretto, ha, per noi, l’ulteriore difficoltà di una non immediata corrispondenza visiva e tonale con le lettere che conosciamo.

Tuttavia, la breve parola di questo titolo – Дети –, composta di solo quattro segni grafici, abbiamo un po’ tutti imparato a riconoscerla.

Vuol dire “bambini”.

È scritta sui finestrini delle auto delle famiglie (o di loro parti) che cercano di fuggire da Kharkiv, Kyev, Leopoli e da ogni altra città ucraina assediata e bombardata. Potrebbe evocare quegli adesivi con la scritta “bimbo a bordo” che di solito si incollano sul lunotto posteriore delle auto per invitare alla prudenza l’automobilista che sopraggiunga, al fine di evitare tamponamenti.

Solo che, stavolta, il pericolo che si vuole scongiurare è ben più grave: una raffica di proiettili, il colpo diretto di un cecchino o quello indiretto di un mortaio, l’esplosione devastante di una bomba.

E’ la parola-salvacondotto cui si affida la sicurezza e l’incolumità di un bene prezioso, una ricchezza da proteggere, al pari di uno di quei “carichi eccezionali” legittimati a viaggiare senza limitazioni affinché se ne eviti il deperimento.

Ma il possibile deperimento, stavolta, non riguarda derrate alimentari o provviste: riguarda generazioni, vite in germoglio da tenere al riparo non dall’autodegradazione ma dalla follia di altri, di adulti irresponsabili, prepotenti e digiuni di valori e tesori quali il rispetto e l’uguaglianza.

È l’etichetta incollata su una scatola di lamiera che custodisce un carico di speranza e disperazione, di paura e coraggio, di volontà e di rinuncia e che è anche il bozzolo al cui interno si compie la metamorfosi dell’innocenza che diventa improvvisamente e violentemente adultità, col suo carico improvviso e gravoso di mancanze e sacrifici. Senza il passaggio per la radiosità di una età di mezzo.

È l’insegna di ciò che può essere perduto: la spensieratezza e la bellezza dell’infanzia.

È la parola incisa due volte in terra, davanti a ciascuna delle due facciate del Teatro di Mariupol, come fosse una parentesi aperta e chiusa al cui interno deve restare circoscritta una zona franca, un rifugio dove può trovare riparo mezzo migliaio di civili.

È scritta a caratteri giganteschi, perché la si possa vedere anche dall’alto di un aereo inviato a sganciare bombe indistintamente su case, palazzi, monumenti, stazioni, divenuti ora bersagli anziché luoghi di vita.

Il messaggio vuol essere chiaro: non qui; risparmiate almeno i bambini, portate via da qui la vostra ombra di morte.

E invece no, non basta. La bomba cade; il bersaglio esplode; forse il bunker sotterraneo resiste e qualcuno si salva. I russi negano d’essere gli autori del bombardamento ed accusano la milizia ultranazionalista ucraina del Battaglione Azov di aver distrutto l’edificio come gesto di provocazione. Come se tutto fosse un gioco di ripicche, uno scambio di sfide per dimostrare il valore del più forte.

Ed a pagarne il prezzo sono ancora una volta loro, Дети, i bambini.

Bisognerà, un giorno, dare risposta a questa tragedia; bisognerà che i responsabili di questa guerra spieghino perché ignorino volutamente il codice di quei quattro caratteri, che equivalgono ad una bandiera bianca, così come lo straccio bianco attaccato alle maniglie delle auto in fuga.

Non significano resa incondizionata, no; significano piuttosto: fermatevi, cessate il fuoco, lasciateci passare. Lasciateci vivere.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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