A febbraio del 2020 la pandemia era ormai un fatto conclamato.
L’allarme, la paura, i morti l’avevano immediatamente resa l’argomento portante di tutta l’informazione, monopolizzandola.
Senza una precisa intenzione, ma con un’ovvietà, anzi, che rispecchiava perfettamente il clima di preoccupazione e di inaspettata difficoltà che si era instaurato, si era cominciato ad utilizzare un linguaggio guerresco, militarista, per parlare della lotta al virus.
Trincee, prime linee, fronti, barricate, soldati erano diventati la metafora inquietante per indicare ospedali, dottori, infermieri, terapie intensive.
A dire il vero non era piaciuto molto l’accostamento d’uno “stato d’emergenza” ad uno “stato di guerra”, soprattutto a quanti - da subito in contrasto con la scelta di misure che nella sostanza si affermavano come obblighi, a dispetto della loro forma – avevano ravvisato in quel lessico e nei fantasmi che evocava la giustificazione di scelte indiscutibili di stampo repressivo se non – a loro dire - addirittura dittatoriale.
Chi l’avrebbe mai detto che a febbraio 2022 quel linguaggio sarebbe stato reimpiegato, ma a ragion veduta. Il conflitto russo-ucraino l’ha riproposto in tutta la sua reale ed effettiva valenza, senza metafore e senza eccessi.
È di nuovo sconfinato, imprudentemente e con biasimo immediato, soltanto quando il Ministro dell’Istruzione ha osato mutuarlo parlando di “addestramento” per indicare i progetti formativi della sua riforma, seguito a breve distanza dal correlato Ministero che gli ha fatto eco con l’emanazione di un bando finalizzato al reclutamento di soggetti da porre “in posizione di comando” presso i propri uffici.
Ma niente più. È rimasto per il resto correttamente incasellato nel perimetro di sua giusta competenza, descrittore efficace e coerente d’una cronaca di belligeranza autentica.
Tuttavia, neppure di fronte a tanta cruda verità le polemiche hanno taciuto. Si è trattato però d’una diversa critica, che facendo salva la liceità del linguaggio, ne ha tuttavia condannato nuovamente l’abuso, sotto un profilo quantitativo stavolta.
“Prima se ne parlava troppo e ora non se ne parla per nulla”: il riferimento è al Covid, e a lanciare questa accusa contro Governo e giornalisti è stato uno di quei virologi che la pandemia ha alzato agli onori degli schermi in veste di professionista/opinionista ed esperto di categoria quando ancora le cantonate sulle caratteristiche del virus erano all’ordine del giorno.
L’esperto in questione – dal cognome che in altri tempi avrebbe evocato corredi e biancheria – si è detto non d’accordo su tutto il clamore mediatico dato in Italia al Covid rispetto ad altri Paesi, ma ha altresì dichiarato di trovare assurdo che ora non se ne parli completamente più “come se il problema fosse solo la guerra in Ucraina”.
Al di là della inopportuna e risibile pretesa che quasi vorrebbe l’opinione pubblica attenta alla contrapposizione tra guerra e Covid piuttosto che a quella tra guerra e pace, l’ulteriore constatazione da farsi è invece che di lì a poco anche il linguaggio di guerra ha subito dei selettivi sfrondamenti. Pur in costanza d’un conflitto che non accenna a concludersi, dal lessico che l’accompagna sono spariti i morti, ma soprattutto le loro identità.
Rispetto ai primi mesi - quando con sconcertante minuzia di particolari si ufficializzavano nomi, età e mestieri di chi cadeva sotto gli spari o le esplosioni, così da accrescere quell’empatia che, chiamandoci a partecipare il loro dramma, ce li rendeva fratelli, figli, coniugi e genitori - oggi si parla solo di “vittime” affidate ai numeri d’una conta che pare il punteggio giornaliero d’una una partita geopolitica in cui le pedine da giocare sono territori, confini e risorse naturali.
La guerra c’è ancora, ma è ormai un argomento passato di moda.
Lasciato in coda o al massimo a metà nella classifica delle notizie dei telegiornali, è ormai un articolo poco vendibile e poco attraente, o almeno non coinvolgente quanto una crisi di governo o un divorzio milionario di certi vip, le nozze di tal’altri o persino una pizza al patanegra.
Almeno fino a quando la linea d’attenzione non viene improvvisamente catturata da una identità solitaria, sottratta all’algebra delle vittime e del loro anonimato, che impone prepotentemente di riattivare i canali della coscienza e della compassione.
È accaduto così con Liza, una bimba di quattro anni che la trisomia, com’è sua caratteristica ricorrente, aveva dotato d’una luminosità e di una gioiosità che la ripagavano di quant’altro le aveva sottratto. Una bimba fortunata, avvolta nella bolla d’amore incondizionato di una madre che del suo sorriso aveva fatto il proprio sole, d’ogni suo progresso una propria conquista. Il suo profilo social celebrava la grandezza di quel legame ogni giorno, zeppo com’era di foto che le ritraevano insieme, in qualunque circostanza o momento della giornata. E così è stato anche qualche giorno fa quando, di ritorno dal centro dove faceva logopedia, Liza aveva chiesto alla mamma di scendere dal suo passeggino rosa e di poterlo “guidare” lei.
Un minuto prima era lì, che sorrideva fiera d’aver ottenuto quel permesso speciale, guardando verso la videocamera del telefonino della mamma che immortalava quel momento di felicità. Il minuto successivo Liza era stesa sull’asfalto divelto, immobile sotto il passeggino rovesciato, uccisa da un missile che l’aveva scaraventata lontano, atterrandola in un deserto di morte dove il suo sorriso ed i suoi sogni si erano spenti per sempre.
Si sarà però trattato della commozione d’un momento, d’un fermo immagine che per un istante avrà indotto a riconsiderare una tragedia ed un dolore vivi tuttora ma relegati nella cornice dell’indifferenza.
Tra qualche settimana o tra qualche giorno – forse anche l’indomani – non ci avremo pensato più; gli occhi a mandorla di Liza saranno scoloriti nella memoria che in un guizzo di pietà avevano occupato, e la sua identità scomparirà tra i numeri.
E di nuovo dei morti non si parlerà più, perché neanche quel gran disquisire attorno alle parole li investirà più. Ormai indifferenti persino a quelle.