In una delle innumerevoli chat di gruppo wathsapp che affollano il mio telefono è capitato qualche giorno fa un video che, a differenza di quanto faccio di solito immaginando che si tratti di stupidaggini, ho deciso di visionare, forse perché è arrivato in un momento in cui non andavo di fretta o forse perché… doveva andare così.
Il video riproduceva la danza di un padre e di un figlio – indiani, credo, a giudicare dalla fisionomia – eseguita durante uno di quei talent show internazionali dove si esibiscono pretesi artisti più o meno capaci, nella speranza di ottenere il passaggio ad una finale che funga da trampolino per il lancio verso una qualche forma di successo.
Era una coreografia moderna, fatta di movimenti e figure ripetute con un sincrono perfetto e tante, tantissime “prese” al termine di salti e giravolte che riportavano puntualmente il ragazzo (che avrà avuto 11/12 anni) tra le braccia salde del padre.
La musica era dolcissima, struggente, e rendeva quei movimenti ancora più armonici nel loro ripetersi, anche laddove peccavano di perfezione.
Tuttavia, non la si sarebbe giudicata una performance straordinaria al pari di quelle eseguite da danzatori professionisti, né per originalità né per tecnica. La differenza fondamentale, che la rendeva però unica, era data dal fatto che quel ragazzo dai lineamenti delicati e dal fisico asciutto e leggero era cieco.
La didascalia che accompagnava il video, scritta in portoghese, recitava così: “a confianca de um filho cego em seu pai, nos dà o exemplo de como devemos donfiar em Deus totalmente”, che tradotto significa “la fiducia di un bambino cieco in suo padre ci dà l'esempio di come dobbiamo fidarci pienamente di Dio” .
Al di là del messaggio cristiano sottolineato dal video - il cui prezioso valore sarà stato di certo colto ed apprezzato anche da chi, pur senza essere un fervente e praticante cattolico, ha una buona impronta di fede nella propria vita – sono stati proprio quel concetto di fiducia e la metafora della danza impiegata per esprimerlo a colpirmi, offrendomi uno spunto di riflessione.
Quando, anni fa, ho frequentato un laboratorio teatrale, ricordo che uno degli esercizi che veniva proposto a noi allievi era quello “della fiducia nell’altro”: a turno, bendati, posti al centro di un cerchio composto dagli altri compagni di corso, bisognava lasciarsi cadere in una qualunque direzione, senza timore, con la certezza che ci sarebbe stato sempre e comunque un paio di braccia pronto a sorreggerci.
La coreografia che ho descritto in sostanza non fa altro che applicare quell’esercizio, dimostrando come affidarsi ad altri sia spesso un rimedio per vincere i propri limiti, le proprie difficoltà, i propri timori.
Mai come in questo esempio parrebbe più appropriato parlare di “cieca fiducia” se l’espressione non rischiasse di sembrare velata di cinismo; e, tuttavia, è anch’essa la giusta metafora che arriva a dimostrare – in maniera estrema ma efficacissima – la potenza di un valore che stiamo dimenticando.
Apparteniamo ad una società in cui della fiducia sono rimasti ormai solo gli scampoli: inglobati in contesti in cui – mutuando l’approfondimento hobbesiano dell’antica espressione “homo homini lupus” – ognuno tende ad assecondare la propria dimensione egocentrica ed indipendente piuttosto che apprezzare il valore della relazione e della condivisione, viene da riflettere su quanta povertà insidi ormai l’animo umano, sempre più lontano dalla bellezza e dai vantaggi della compartecipazione, dell’aiuto reciproco, del rispetto soprattutto.
Ci muoviamo nei nostri contesti con la stessa diffidenza d’una preda che si aggiri in una boscaglia insidiosa, sempre all’erta, sempre in tensione e col timore costante d’essere sorpresi alle spalle da qualcosa di inatteso o imprevisto tanto che ci corazziamo, diventiamo respingenti, totalmente chiusi alla possibilità di comunicare, di confrontarci, di comprenderci (persino!) gli uni con gli altri.
Sempre più barricati nei nostri piccoli mondi – casa, lavoro – ci concediamo solo a pochi, selezionati e “collaudati” nostri simili, senza tentare nuove aperture altrove; ci barrichiamo dietro monitor e tastiere certi di trovare lì dentro la soluzione ad ogni nostra richiesta o ad ogni problema, edificando così una sorta di “pronto soccorso” asettico, astratto e distante che finisce per rassicurarci forse proprio grazie alla sua “disumanità”. Perché il dramma, in finale, è proprio questo: l’essere diventati progressivamente sempre più incapaci di farci attrarre dal lato umano delle cose, preferendo una sorta di isolamento emotivo in cui i sentimenti non vengono chiamati in causa, restando così congelati o al massimo indirizzati a quei pochi individui che riconosciamo far parte del nostro piccolo mondo, appunto.
Dovremmo “danzare” anche noi, invece; abbandonarci alle note della vita ed alle braccia del prossimo, riconquistando l’idea stessa di fiducia prima ancora che la fiducia nei nostri simili.
Solo così potremo vincere anche noi il buio cui ci costringe la nostra volontaria cecità.