Ogni guerra, dalla parte di chi non ne è coinvolta, viene perlopiù considerata nel suo insieme: un unico più o meno esteso confitto, in cui non si distinguono singoli episodi, vicende ben dettagliate, collocate in precisi spazi, fatti di luoghi e persone, con le loro geografie e la loro identità.
Agli occhi degli spettatori esterni la guerra è il tutto: le bombe, i morti, le macerie, il dolore. Diffusi, estesi, generici. Penosi, si, ma in fondo anonimi.
Invece in ogni guerra si distinguono singole battaglie, episodi finiti e compiuti oppure ancora in corso, che concorrono a formare quell’insieme drammatico, mantenendo però la loro specificità, la loro porzione di tragedia e di rovina, non differente da quella complessiva e tuttavia unica nella sua individualità.
Bakhmut rappresenta uno di questi “episodi”, una delle tessere del grande mosaico che è la guerra tutta.
E’ ormai ridotta ad un ammasso pressochè informe di macerie, eppure Mosca e Kiev tuttora se la contendono, perché pur non avendo affatto alcuna importanza militare, è tuttavia una città simbolo, un emblema di forza e potere, come tale ambito da entrambi i contendenti.
Bakhmut, città nella Repubblica di Donetsk, è sotto assedio da circa sette mesi.
E’ il luogo dei combattimenti più sanguinosi della guerra, tanto da essergli valso il titolo di “tritacarne dei soldati”.
E’ il tappeto della roulette su cui a turno vince l’una o l’altra puntata: ci sono più truppe russe che circondano la città che munizioni – ha dichiarato il vice comandante della Guardia nazionale ucraina – ed i combattimenti si susseguono 24 ore su 24. Da un lato i russi spingono senza tregua per catturare la città, senza tener conto delle perdite, pur di affermarsi; dall’altro, le truppe ucraine cercando di “infliggere quante più perdite possibili al nemico”. Due ponti sono stati fatti saltare, dall’una e dall’altra parte, creando quasi una trappola al cui interno si continua a morire.
Quella che si combatte a Bakhmut è una “guerra di logoramento”, secondo lo schema delle più datate tradizioni belliche.
Ma su questo vecchio modello si innestano elementi di importante modernità e di avanzata tecnologia: si utilizzano i droni.
La città si trova lungo un’autostrada strategicamente importante ed è vicina ad alcuni importanti snodi ferroviari.
E, ancora, si trova nella regione dell’autoproclamata repubblica di Donetsk: territorio ucraino, trazione filorussa.
Conquistarla, per i russi, significherebbe - prima ancora che l’acquisizione di un’importante base di partenza per espugnare anche le vicine e più importanti città di Slovyansk e Kramatorsk - una vittoria utile alla loro propaganda.
Dal canto suo, per l’Ucraina, la battaglia rappresenta una lotta politicamente significativa, volta a dimostrare come, nonostante l’inferiorità numerica di uomini e strumenti, sia ferma e determinata la volontà di difendere il proprio territorio anche a costo di enormi sacrifici.
E’ tutto terribilmente aberrante, dall’una e dall’altra parte, giacchè ogni guerra ed ogni singola battaglia, al di là di chi si identifichi nella vittima o nell’aggressore, si consuma sul sangue di innocenti, compresi coloro che – loro malgrado – sono diventati ciò che non avrebbero voluto essere: soldati ed assassini.
Ecco allora, che all’interno di ogni battaglia – che è già di per sé un episodio della guerra – si collocano tanti altri singoli episodi destinati perlopiù a rimanere sconosciuti, fagocitati anch’essi da quell’unica bolla di violenza e distruzione che tutto divora e annienta.
Sono le storie di quegli eroi che non avranno mai una strada intitolata, una statua in un parco, un nome scritto in grassetto nelle pagine di un libro di storia. Eppure sono uomini e donne che per quel breve spazio di vita che la guerra ha loro concesso prima di strappargliela via, hanno servito quei brandelli di umanità che le regioni della guerra non sono riuscite a sgretolare.
Yana Rykhlytska era una di loro.
Treccine bionde sottili a riempirle a testa, lineamenti da adolescente, corporatura minuta. Avrebbe compiuto tra poco 30 anni.
La chiamavano “l’angelo dei combattenti “ di Bakhmut, perché proprio in quell’inferno, da volontaria paramedico di guerra, di vite ne aveva salvate tante.
Prima della guerra lavorava in un'azienda informatica, ma quando aveva compreso che l’aggressione iniziale stava trasformandosi in un conflitto di ben maggiori proporzioni, aveva deciso di arruolarsi nelle forze armate ucraine, di seguire la preparazione da paramedico e di prestare soccorso sul campo. «Quando è tornata a casa per il capodanno – raccontano i suoi amici - i suoi parenti le hanno chiesto di non andare più al fronte, ma lei ha risposto solo: “Amo l'Ucraina! Chi la difenderà se non io?”».
Yana è morta qualche giorno fa, uccisa dai colpi di mortaio sparati dalle truppe russe sull'auto medica su cui viaggiava, durante un'evacuazione di feriti vicino a Bakhmut.
Lei si che è un simbolo, ma di quelli che non fanno la gloria della guerra, perché il suo nome non risuona nei proclami, la sua voce non arringa dai pulpiti, la sua immagine non rimbalza sugli schermi delle emittenti mondiali.
Eppure fa parte di quel numero di anonimi che nella vittoria hanno investito più d’ogni altro combattente, perché più che nel valore delle armi ha continuato a credere nella pietà, nella cura, nell’umanità, nonostante tutto intorno ci fossero solo violenza e terrore.
Chiunque rischi la propria vita per salvare quella degli altri è un eroe.
Se lo fa senza armi e senza vendetta forse è persino santo.
E di eroi e di santi sconosciuti è piena ogni guerra. E’ la sola consapevolezza che può alleviare lo strazio quando la prima e più dolorosa sconfitta resta quella nella battaglia contro l’irrazionalità.