Qualche sera fa, nell’adagiata mollezza tipica dei giorni di festa, in una insolita e ormai rara formazione domestica tutta schierata sullo stesso divano, il plebiscito familiare ha votato per la visione di “Don’t Look Up”, la nuova pellicola di Adam McKay approdata su Netflix dopo un breve passaggio al cinema.
Oltre ad un eccezionale cast, confesso che non sapevo bene cosa aspettarmi da un film che i puntatori di gradimento avevano sin da subito posizionato sui due estremi di “figo” e “insulso”, senza mezzi termini; dunque, ne ho approcciato la visione con una certa curiosità e con altrettanta neutralità.
Di attributi con cui definirla me ne sono tuttavia balzati in mente diversi mentre ancora le sequenze scorrevano, con una mutevolezza ed una tensione – quasi – che ho mantenuto fino alla fine.
“Surreale” è stato il primo qualificatore che ho pensato, seguito poco dopo da “grottesco” e “irridente”.
Di per sé la storia non ha alcunché di originale, anzi, potrebbe ben ritenersi una versione minima e declassata (colpevole, peraltro, d’una lentezza che mal si concilia con l’energia che viceversa richiederebbe lo scenario catastrofico narrato) d’un tema che film di fantascienza di ben altra levatura hanno già trattato.
Ma la sua peculiarità è piuttosto un’altra, che sta proprio nello spostare l’attenzione dello spettatore dall’azione alla reazione: di fronte alla minaccia dell’imminente impatto d’una cometa contro il nostro pianeta, in conseguenza del quale ogni specie animale e vegetale sarà distrutta, quello che si viene a delineare non è uno scenario di terrore e disperazione ma, anzi, un carosello di risposte surreali che riflettono comportamenti di fatto non lontani da quelli cui stiamo assistendo nell’attuale quotidianità. Dai capi di stato alla gente comune, l’atteggiamento più evidente di fronte all’annuncio d’una catastrofe (che sia quella climatica, quella pandemica o quella d’una cometa diretta in picchiata verso la Terra) pare infatti essere quello della diffidenza, del dubbio, dello scetticismo.
Piuttosto che affidarsi alla scienza (che sia rappresentata da scelte indirizzate alla transizione ecologica, dai vaccini, dalla deviazione dell’orbita d’un asteroide per impedirne l’impatto contro il pianeta) si diffondono visioni distorte – complottismo, negazionismo – che finiscono per deviare l’asse dell’attenzione su altri “canali” rispetto all’emergenza ed alla necessità che bisognerebbe affrontare.
Tutto ciò è avvolto, nel film, da un velo satirico in cui si possono ben individuare riferimenti a situazioni e (soprattutto) a personaggi reali, del nostro tempo, alle loro prosopopee, alla loro ignoranza, ai loro ricatti, alla loro sete di profitto, alla quale ultima non si esita a immolare perfino il destino dell’umanità intera, nella consapevolezza di poter contare su un “piano B” che, all’occorrenza, garantirà la salvezza a un pugno di pochi eletti.
Ne consegue che, per tutta la sua durata, la pellicola provoca uno stato d’animo ibrido, in cui alla percezione della drammaticità d’una situazione - tutto sommato possibile, e che può essere anche la metafora di altri disastri tremendamente attuali e reali – si somma la leggerezza della satira, col risultato di delineare una condizione di disequilibrio paradossale, in cui, da un lato, si tende a ridere, dall’altro, si avverte con una certa gravità che non c’è niente da ridere.
Al di là del grottesco, un interrogativo, però, giunge spontaneo: nella realtà, noi tutti saremmo davvero in grado di agire con razionalità, unità d’intenti e spirito collaborativo di fronte alla minaccia d’una catastrofe o, viceversa, corriamo il rischio di disperderci, di dissipare le nostre energie, di negare l’evidenza, ubbidendo all’invito a “non guardare in alto” - o in qualunque altra direzione sia necessario – rivoltoci da “superiori” che minimizzano o danno spazio ad altre priorità, come pare stia accadendo sia nei confronti dell’emergenza climatica che della pandemia?
Il film mira evidentemente proprio a questo: a dimostrare come, in una realtà più probabile, la salvezza del mondo possa dipendere non dalla mancanza di adeguai strumenti tecnici ma dal prevalere di egoismi, egocentrismi, ragioni sociali e di potere; a mettere in evidenza come anche l’informazione possa subire i condizionamenti di tali condotte, divenendo perciò meno efficace (come accade ai giornalisti del film, che, calando la notizia del disastro imminente all’interno di divertiti siparietti, la declassano, minimizzandola); a puntare l’indice contro lo Stato quando si mostra condizionato o asservito a finalità indirette (come la dipendenza economica da un visionario imprenditore che non può resistere alla tentazione di trarre profitto anche da quell’asteroide che punta dritto sulla terra perché ricco di minerali preziosi, finendo così per legare le sorti del pianeta al mito intravisto di poter sviluppare una tecnologia mai prima sperimentata).
La riflessione che allora ne deriva è quella della necessità di mettere a punto uno sforzo reale per cambiare il mondo e salvarlo, affidandolo ad una comunicazione immediata ed efficace che induca al risveglio d’una coscienza collettiva e ad una mobilitazione altrettanto comune in grado di individuare e mettere dunque da parte quelle logiche che individuano altre priorità – la ricchezza ed il potere – in luogo della tutela de pianeta e della vita.
Guardare perciò ovunque: in alto, davanti e tutt’intorno, dando credito alle indicazioni di chi ha le giuste competenza piuttosto che fidarsi di guide improbabili o affidarsi ai richiami della convenienza.
Fate attenzione alla frase della voce narrante a inizio film: “vorrei morire serenamente nel sonno come mio nonno e non gridando di terrore come i suoi passeggeri”: con una apprezzabile dose di sarcasmo sembra voler dire proprio questo.