La mattina del 27 giugno una Mercedes gialla sta percorrendo una strada del sobborgo di Nanterre, alle porte di Parigi. Alla guida c’è Nahel, un ragazzo franco-algerino di 17 anni.
Nahel non è un cattivo ragazzo, a detta di chi lo conosce bene; soffre certamente delle irrequietezze tipiche di un adolescente, cui si aggiunge nello specifico il disagio di essere un figlio unico cresciuto dalla sola madre in una condizione economica decisamente non florida. Tuttavia non ha mai cercato il guadagno facile con lo spaccio o la piccola criminalità: consegna le pizze e sogna un lavoro vero, tant’è che frequenta un corso professionale per diventare elettricista. Il rugby e il rap sono le sue passioni e probabilmente anche le valvole di sfogo in cui convoglia le sue difficoltà e la sua rabbia.
L’auto che sta guidando non è sua, ovviamente; qualcuno gliel’ha prestata, tanto più che alla sua età non può ancora avere la patente. Sa dunque perfettamente di essere in difetto quando, quella mattina, due poliziotti lo fermano ad un posto di blocco. Tuttavia non tira dritto; si blocca qualche istante, parla con uno dei due agenti che gli sta puntando una pistola contro, poi riparte di colpo. Percorre però soltanto qualche metro, prima di schiantarsi contro un palo poco più avanti, stroncato da un proiettile che lo ha raggiunto al torace.
Il poliziotto che ha sparato sosterrà più tardi, di fronte agli inquirenti, d’esser stato costretto a farlo perché il ragazzo avrebbe tentato di travolgerlo con l’auto. Non sa, però, che qualcuno, con un telefonino, ha ripreso tutta la scena e, dalle immagini catturate, non si evince alcunché di quanto l’agente ha riferito.
La polemica scatta immediata: non è la prima volta che si assiste ad una reazione esuberante da quando una legge approvata nel 2017 ha introdotto nuove regole per l’utilizzo di armi da fuoco da parte delle forze dell’ordine francesi ampliando eccessivamente, secondo molti, i casi nei quali possono farvi ricorso.
Ma di lì a poco la polemica si trasforma in protesta, sfociando in manifestazioni e disordini: c’è chi sostiene che l’uso della violenza da parte di militari e polizia abbia ormai raggiunto livelli allarmanti, giacché le uccisioni ingiustificabili di civili continuano ad aumentare; ma c’è anche chi si schiera a loro sostegno, reclamando una ‘pulizia’ rivolta non solo al crimine ma anche all’ ‘inquinamento’ etnico e razziale, in nome di una rivendicazione identitaria (altrettanto abnorme) scandita dai tanti slogan proclamati durante i recenti e appena sedati cinque giorni di assedio urbano: «Ici on est chez nous» («Questa è casa nostra»), «Bleu, blanc, rouge» «la France aux Français» (la Francia ai francesi).
L’assurdo, però, non finisce qui; l’ultimo capitolo di questa vicenda - raccontata ancora al presente, benché si appresti ormai a scolorire e che meglio si adatterebbe all’imperfetto, ma non soltanto come tempo verbale – è narrato da dettagli sfumati, che meritano invece altrettanta attenzione, giacché è per loro tramite che si manifesta l’indifferenza e il pregiudizio che sono il vero cancro di una società sempre più discriminatoria.
Mentre ancora militari e ronde si sparpagliano in ogni dove per contenere ulteriori rivolgimenti e manifestazioni, Nahel è lasciato solo anche nel giorno del suo funerale: non c’è nemmeno un poliziotto, nessuna guardia, nessun servizio d’ordine (né d’onore) a presenziare a quella triste cerimonia. Sono solo i suoi amici – vestiti con la lunga tunica della tradizione islamica che, mai come in questa circostanza, sottolinea una integrazione mancata e impossibile - a darsi da fare per formare un cordone attorno a quel lutto, per preservare la triste cerimonia da incursioni indesiderate, dallo sciacallaggio dei media, da irriverenti dimostrazioni.
E non basta. C’è ancora uno smacco – forse il più crudele – che vuole sottolineare una presa di posizione che non necessita di commenti per dimostrare la sua odiosa evidenza: nei giorni immediatamente successivi alla morte di Nahel vengono lanciate due raccolte fondi da due ‘fronti’ contrapposti: l’una – sociale - a sostegno della famiglia della vittima; l’altra – politica - a sostegno della famiglia del poliziotto finito in carcere per averla uccisa.
Ed è questa seconda che in poche ore raggiunge una cifra di cinque volte superiore all’altra.
È superfluo soffermarsi sulla matrice ideologica che ha ispirato la ‘colletta vincitrice’;
è invece triste constatare come anche le iniziative solidali abbiano tradito la loro primaria finalità per trasformarsi in specchi rivelatori di inequivocabili tendenze.
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