È un sabato mattina qualunque.
Davanti ai cancelli del Liceo Michelangiolo di Firenze sei ragazzi “di destra” del gruppo Azione studentesca ardiscono di fare volantinaggio (certo non per pubblicizzare kebab né pizza al taglio) pur sapendo che quella è una scuola connotata da opposta ideologia “di sinistra”, con tanto di collettivo rappresentativo.
Tuttavia non vengono scacciati; semplicemente davanti all’ingresso dell’istituto viene posizionato un cestino: un chiaro segnale che la loro propaganda non è gradita cosicché chi non apprezza il loro volantino può immediatamente gettarlo.
La strategia evidentemente non piace: nasce una discussione tra i giovani di Azione e quelli del collettivo e, prontamente, come se non aspettassero altro, i primi passano dalle parole ai fatti, colpendo con pugni e calci due dei secondi.
È questa la ricostruzione fatta anche dagli investigatori della Digos fiorentina.
Non è una rissa, ma, come ben presto appare chiaro, un'aggressione squadrista in piena regola, di cui il volantinaggio era solo un pretesto.
Il Collettivo del Michelangiolo denuncia l’accaduto sulla propria pagina Instagram, recriminando contro governo ed istituzioni, accusati - con toni diretti e forti – di “sostenere e istituzionalizzare” “l’ideologia del ventennio”.
Segue poi l’indizione di una manifestazione studentesca che si svolge pacificamente e senza sussulti qualche giorno dopo.
Sin qui la cronaca.
Quello che si è invece scatenato dopo e attorno a questa vicenda è il consueto circo mediatico che, come sempre, deviando dall’asse centrale dell’argomento, è giunto ad innescare anche reazioni incandescenti ultronee e, a loro volta, pretestuose.
Ciò che infatti maggiormente ha colpito di questa vicenda – la cui gravità è innegabile – non è tanto l’assenza, sottolineata da tanti, di un intervento e di una condanna diretta da parte dei vertici di governo nei confronti di un’azione dalla connotazione ideologica ben precisa, laddove invece, in altre occasioni, pronte sono state le reazioni. Vedasi, per esempio, il ricorso nientemeno che alla decretazione d’urgenza per disciplinare rave; la presa di posizione su lanci di vernice lavabile su monumenti e palazzi; la repressione immediata di qualche corteo anarchico ritenuto pericoloso per l’ordine pubblico.
E non è tanto neanche il tentativo (fatto) di derubricare l’accaduto a “rissa”, come se si trattasse solo una questione di etichetta anziché di sostanza e non fossero viceversa chiare le evidenze non solo ideologiche degli aggressori, ma anche la brutalità dei loro metodi (altrettanto chiaramente rievocativa d’altri tempi e stagioni), inequivocabilmente ripresi da smartphone e telecamere.
Ciò che colpisce è invece la reazione che è seguita a quella lettera potente, pur nella sua delicatezza, con cui la preside di un altro liceo fiorentino ha esortato i suoi studenti – i figli della scuola, che essa si impegna a preparare alla società spesso sopperendo anche alle mancanze della vera genitorialità - a non restare indifferenti di fronte alla violenza ed a saper riconoscere e respingere ogni rigurgito di fascismo, condannando sempre la prepotenza. “Chi decanta il valore delle frontiere, chi onora il sangue degli avi in contrapposizione ai diversi, continuando ad alzare muri, va lasciato solo, chiamato col suo nome, combattuto con le idee e la cultura. Senza illudersi che questo disgustoso rigurgito passi da sé” – ha scritto la preside nella sua accorata lettera, spiegando che “il fascismo in Italia non è nato con le grandi adunate da migliaia di persone; è nato ai bordi di un marciapiede qualunque, con la vittima di un pestaggio per motivi politici che è stata lasciata a sé stessa da passanti indifferenti”.
Ebbene, da un lato, si sono scatenate subito le proteste (di intuibile colore) di quanti hanno contestato alla preside la mancanza di imparzialità, giacché avrebbe omesso di accennare anche alle vittime del comunismo. Eppure, lo stesso – ed inverso - “errore” non lo aveva forse commesso (e, se vogliamo, ben più gravemente) il novello Ministro dell’Istruzione nella lettera a tutti i dirigenti scolastici - scritta il 9 novembre scorso, in occasione dell’anniversario della caduta del muro di Berlino (cfr.: “
Lettera dal Ministero” del 12 novembre 2022) – che fuor d’ogni metafora era sembrata un manifesto di propaganda anticomunista?
Dall’altro, sconcerta la reazione proprio del ministro in questione, che, definendosi “dispiaciuto” del contenuto dello scritto della dirigente fiorentina, l’ha definito “del tutto improprio, affermando che “non compete a una preside lanciare messaggi di questo tipo e il contenuto non ha nulla a che vedere con la realtà", giacché "in Italia non c'è alcuna deriva violenta e autoritaria, non c'è alcun pericolo fascista, difendere le frontiere non ha nulla a che vedere con il nazismo o con il fascismo".
Non pago, ha infine minacciato di sanzionare la dirigente stessa, dichiarando: "Se l'atteggiamento dovesse persistere, vedremo se sarà necessario prendere misure".
Ora, senza voler entrare nel merito delle sussistenti o meno corrispondenze tra alcune azioni e condotte ed una qualche ideologia politica, l’interrogativo che invece merita soluzione è quale sia il “tipo di messaggio” che esulerebbe dalle competenze di una dirigente scolastica, il cui ruolo, come pubblico ufficiale e rappresentante dello Stato in una comunità sociale quale è la scuola, è, naturalmente anche quello di farsi in qualche modo portatore e garante dei valori della nostra Costituzione. La quale (ma lo si dimentica troppo spesso) all’art. XII delle sue Disposizioni Transitorie e Finali espressamente stabilisce: “È vietata la riorganizzazione, sotto qualsiasi forma, del disciolto partito fascista.”
Alla luce di tanta evidenza, può allora definirsi propagandistico un invito (perché solo questo voleva essere!) rivolto ai giovani di una comunità studentesca a non restare indifferenti di fronte ad episodi di violenza politica? E, oltretutto, l’insegnamento non è forse libero - come pure dichiara la Costituzione – o esistono invece vincoli ai contenuti didattici ed agli strumenti educativi?
Tentare in qualche modo di censurare libere espressioni di pensiero, specie quando hanno valore di insegnamento, rimanda tanto a quel tentativo di “mettere il bavaglio” che in un tempo passato, ben più disgraziato, imbrigliava il lavoro di altri divulgatori. Per di più, nuoce gravemente alla salute delle moderne istituzioni scolastiche, già di per sé afflitte da un eccesso di burocrazia, dalle pretese (e spesso dal ricatto) di famiglie tutt’altro che collaborative e da un esubero di certificazioni che traducono in disturbo ciò che invece è soltanto disinteresse degli studenti, riducendo sempre più la qualità dell’insegnamento e della conoscenza.
Ecco che allora pare possano adattarsi anche a questo contesto le parole che la senatrice Segre ebbe a pronunciare al Senato in occasione della sua prima seduta, lo scorso ottobre: “se le energie che da decenni vengono spese per cambiare la Costituzione, peraltro con risultati modesti, talora peggiorativi, fossero state invece impiegate per attuarla, il nostro sarebbe un Paese più giusto e anche più felice.”
E probabilmente anche meno ignorante.