Natale 2022.
Milena e Ignazio. Sabrina e Michael.
Ai più questi nomi non raccontano alcunché, dimenticati come le loro storie che pure tanto clamore – e soprattutto indignazione - hanno suscitato appena rese note.
Sono storie di povertà e disperazione, di quelle che non serve andare a cercare lontano, in altre terre, tra altri popoli, ma sono tra noi, abitano alla porta accanto o, più verosimilmente, nelle strade dei nostri quartieri.
Milena e Ignazio sono una coppia di Legnano. La loro storia è arrivata alle cronache lo scorso dicembre, quando si è saputo che, insieme alle loro figlie di 7 e 8 anni e ad un altro appena nato, vivevano in auto, in un parcheggio della città. Ethan, il figlio più piccolo, era anzi nato proprio lì, all’inizio del mese, e subito era stato ricoverato in terapia intensiva in un ospedale milanese perché affetto da una paralisi alle corde vocali.
A vivere in auto c’erano finiti dopo esser stati costretti a lasciare la casa in cui abitavano, impossibilitati a pagarne l’affitto: lei con il reddito di cittadinanza, lui manovale con un contratto a termine scaduto già da qualche mese, non avevano più mezzi. Così, erano prima stati ospitati da un amico, in un vecchio magazzino arredato con un materasso gonfiabile, e poi erano finiti in auto.
Un’associazione di volontariato locale ha pagato loro un albergo per il periodo natalizio, affinché potessero stare al caldo, tutti insieme, almeno durante le feste. L’amministrazione comunale e gli assistenti sociali, invece, non hanno trovato di meglio da offrire che una soluzione di edilizia sociale, che però avrebbe ospitato soltanto Milena e le figlie più grandi (in attesa del ritorno di Ethan), non anche il papà. All’alternativa della separazione, la famiglia (perché non dovrebbe dimenticarsi che è di questo che si tratta!) ha preferito la scelta di continuare a restare unita, anche se in auto.
Cosa ne sia stato in seguito di quelle disgraziate persone, non è dato saperlo. Non si trovano altre notizie in rete.
Del resto, cessata la compassione del momento, dettata dal copione natalizio, si è tornati all’indifferenza quotidiana.
C’è solo da sperare che una condizione di vita migliore, che abbia cancellato dalla loro memoria infantile il dramma di quei giorni, sia stata intanto offerta a quelle bambine, cui il fantasioso papà aveva raccontato la favola che vivere in macchina era un po’ come quando andavano in campeggio e dormivano in tenda.
In quegli stessi giorni di dicembre, a Melegnano (ancora una volta nel ricco ed efficiente nord d’Italia) Sabrina e Michael hanno deciso di non riconoscere il proprio bambino, nato – tra l’altro prematuro – da pochi giorni.
Loro vivono in strada e non hanno la possibilità di farlo crescere in modo dignitoso. Al gelo, perdipiù. Non hanno un lavoro, non hanno documenti.
Hanno un passato fatto di fatica in giro per l’Europa; lui è un pizzaiolo, mentre lei ha una salute malferma, benché abbia solo 23 anni. Vivono in una tenda, vicino alla stazione, e di andare nei dormitori non vogliono saperne, perché anche loro temono di essere separati. Troppe incognite, troppe insicurezze per poter crescere un figlio, che, dunque, responsabilmente e chissà con quale angoscia, hanno preferito lasciare in ospedale, “esposto” alla disponibilità ed all’amore di una famiglia più solida e dignitosa che possa accoglierlo.
Pasqua 2023.
Alle 11.40 del ‘mattino della rinascita’ per antonomasia, suona il discreto campanello della Culla per la Vita dell’Ospedale Mangiagalli di Milano. In quel piccolo guscio protetto, le braccia premurose di una madre disperata hanno appena deposto il piccolo Enea, nato da pochi giorni. Una lettera indica il suo nome, il suo perfetto stato di salute, l’attenzione che quella donna ha avuto nel farlo nascere in ospedale così da accertarsi che andasse tutto bene. Infine, la sua dichiarazione d’amore per quella creatura che ha messo al mondo ed il rammarico di non poterla tenere con sé.
Un altro ‘esposto’, che, come quei figli indesiderati o illegittimi che un tempo si affidavano alla misericordia divina tanto da essere battezzati con eloquenti cognomi (Diotallevi, Diotaiuti, Diotisalvi) ancora oggi, in un’epoca forse meno santa e devota, si destinano a quella umana e terrena.
Di diverso, questa nuova storia, ha che la mamma di Enea è una donna sconosciuta.
Possiamo immaginare una ragazzina ancora troppo giovane per un impegno tanto adulto; una giovane immigrata senza lavoro né documenti; una donna sfruttata, costretta a vendere il proprio corpo; una madre che di fronte alla prospettiva di un futuro di bisogni e privazioni ha preferito che a suo figlio qualcun altro potesse offrire un destino migliore.
Non è naturale che una mamma si separi da suo figlio. Ci sono un istinto, un senso di appartenenza, un legame di dipendenza che non si sciolgono col taglio di un cordone ombelicale e che rendono estremamente drammatica e difficile la scelta di una separazione. Ma ogni facile giudizio di irresponsabilità è destinato a cadere di fronte alla considerazione che immensa e profonda deve essere la disperazione di una donna che arrivi ad un tale gesto, come pure altrettanto solida deve essere la sua devozione alla vita, se ha scelto comunque di onorarla, di portare a compimento un concepimento che tante altre volte e senza effettive necessità si sceglie di interrompere.
Sia nel caso di questa mamma sconosciuta, come nel caso di Sabrina e Michael e di Milena e Ignazio, c’è però un dato comune che non può che intendersi come un segno di sconfitta in un’epoca ed in una società che ostentano progresso ed evoluzione. E’ la drammatica persistenza di situazioni di emarginazione e solitudine che non trovano soccorso e sostegno in meccanismi e strutture che, pure, nascono con tale intento; che dovrebbero intercettarle ed intervenire laddove ci sono condizioni estreme; che, soprattutto nei riguardi dei più giovani (giovani madri!) dovrebbero mettere in campo azioni dirette ad accompagnarli verso progetti di vita accettabili, per impedire che si perdano, o che debbano rinunziare ad un dono meraviglioso qual è un figlio.