Vincenzo Partinico a soli dieci anni aveva già il destino segnato: avrebbe fatto il pescatore, come tutti gli altri uomini della sua famiglia.
Siamo in Sicilia, ma il luogo in cui s’ambienta questa vicenda non è l’Acitrezza de I Malavoglia, bensì Lampedusa; e questo non è l’incipit d’un romanzo verista, ma la storia reale d’un uomo e della sua barca, che ha il nome d’un santo – San Matteo – sebbene “Provvidenza” sarebbe stato stavolta davvero più appropriato.
Vincenzo ha oggi 57 anni. È un omone grande, dalla mole imponente, un aspetto rude che mai s’immaginerebbe rispondente alla generosità ed all’altruismo che un suo gesto ha invece dimostrato.
Qualche giorno fa, come ogni alba, era in mare a pesca con la sua barca, che ha mantenuto il nome che aveva quando l’ha comprata, “perché mi dicono che i Santi non si toccano”. Con lui c’era Antonio, il suo giovane apprendista, che aveva appena preparato il caffè, un piccolo premio da condividere dopo aver terminato di sistemare le reti.
A quell’ora – le 4.45 – per mare ci sono solo pescatori. E migranti.
Ed è stato proprio contro una “carretta del mare” che, nella calma placida di quel mare scuro, la San Matteo ha urtato.
Vincenzo l’ha capito subito non appena ha sentito il rumore, e così ha acceso tutte le luci del suo peschereccio illuminando mani e braccia che tentavano di arrampicarsi per guadagnare un pezzo di legno fermo e, dunque, la salvezza, mentre il barchino che li trasportava si riempiva d’acqua e lentamente affondava.
Su quella carretta erano in 24. Ad uno ad uno Vincenzo e Antonio li hanno tratti in salvo, gonfiando i loro muscoli di quell’energia che la disperazione rende estrema. Li hanno issati sulla barca, i cui bordi in qualche punto si sono spezzati sotto il peso che vi si poggiava, finché non hanno contato l’ultimo. Poi è stata una litania di lacrime e incomprensibili parole, un intreccio di mani poggiate sul cuore e di indici puntati in cielo, gesti eloquenti con cui quegli ultimi tra gli umili, con negli occhi ancora il terrore di ciò che sarebbe potuto accadere, hanno reso grazie al coraggio di due pescatori di anime.
Il viso di Vincenzo, rigido nella sua severità, si decontrae al ricordo di quei momenti, sciogliendosi nella beatitudine di cuore di chi sa di aver agito nel bene: “Li guardavo e mi sentivo dentro a un film” – ha raccontato - “Mi colavano le lacrime. Ero orgoglioso di quello che avevo fatto. Vederli tutti lì era una gioia grandissima”.
La gioia dei giusti.
Quella di chi è capace di sorridere – persino divertito – di fronte alle assurde conseguenze di una burocrazia che invece non sa guardare oltre le condizioni di necessità e, dunque, va dritta lungo la sua direttrice comminando le prescritte sanzioni. Nel caso di Vincenzo la sua violazione è stata lo sconfinamento fuori dalle acque territoriali, perché non conta che si sia sporto poco più in là per salvare delle vite umane.
Vincenzo è fiero del suo gesto, consapevole d’aver salvato un pugno di disperati che hanno tentato il tutto per tutto pur di dar seguito alla speranza di poter iniziare una nuova vita in un diverso e più benevolo altrove: “Io dal mio Paese non me ne andrei se ci stessi bene“ – osserva Vincenzo – “Vuol dire, perciò, che questi hanno bisogno, se invece lo fanno”. Chiaro, semplice, lineare: la consapevolezza che chiunque dovrebbe avere quando, invece, con troppa facilità e scarso altruismo si scaglia contro “l’invasore”, imputandogli la colpa di tanti guasti ed inefficienze di cui è invece responsabile solo la nostra politica.
In mare le barriere cadono; non ve ne sono di burocrazia, di colore e di razza, perché quel che conta è portare in salvo tutti.
Come sa ogni buon comandante, anche quello di un semplice peschereccio.