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Il ritorno

Autore: Ester Annetta
Il quadro che mi si presenta davanti non appena arrivo al cancello del nuovo liceo cui sono stata assegnata è di quelli che sembravano ormai dimenticati: gruppi di ragazzi sostano in attesa, chi in disparte a scrutare gli altri, chi chiuso in piccoli capannelli da cui affiorano discorsi e risate, chi intento ad arrotolare un drummino o a postare la foto appena fatta sui propri social. Dai loro sguardi non traspare il disappunto per la sveglia suonata troppo presto, né la noia per la ripresa d’un impegno che pare mal conciliarsi con un clima che sa ancora d’estate e nemmeno la preoccupazione che di solito accompagna le matricole che approcciano un ambiente e compagni nuovi. Piuttosto il loro atteggiamento, la postura, le voci ed i sorrisi tradiscono impazienza e contentezza, sentimenti che per primi a loro stessi devono apparire insoliti: di certo fino a qualche tempo fa - due anni quasi – mai avrebbero immaginato di poter un giorno desiderare questo ritorno.
Il suono della prima campanella dell’anno sembra più che mai un richiamo, oggi, un invito a riempire di vita e presenza le aule per troppo tempo rimaste vuote e silenziose.

Il piccolo esercito di alunni si muove ordinato, tenendo a freno quell’entusiasmo che li vorrebbe tutti svincolati dalla misura dei passi e delle distanze, per poi dividersi nelle varie direzioni indicanti le classi d’appartenenza.

Prendono posto nei banchi collocati su fettucce di carta adesiva a bande bianche e rosse che ne delimitano lo spazio d’ingombro: è stato calcolato al millimetro, per consentire il rispetto di quella distanza cautelativa tra le persone con cui si è ormai imparato a convivere e che, tuttavia, aule troppo piccole per contenere una quantità esuberante di posti di fatto rendono inefficace. Ma tant’è, e basta a restituire quel senso di comunità e di vicinanza di cui si è stati troppo a lungo privati, affidati all’esperimento mal riuscito d’una didattica troppo “virtuale” per poter vincere la pretesa d’esser anche produttiva.

La senti tutta quella voglia di stare insieme, d’essere di nuovo a portata di gomito se non di mano, di poter guardare anche solo gli occhi dei compagni – lasciando l’incognita del resto del viso celato dietro la mascherina – da una distanza che non è più filtrata da schermi né display.

Persino in prima, la classe più delicata, quella in cui si gettano i semi delle relazioni e delle alleanze che con i mesi germoglieranno, l’imbarazzo e la discrezione dovuti alla novità di luoghi, compagni ed insegnanti diversi si dissolvono nel giro di qualche ora, complice anche la mediazione di alcuni ragazzi più grandi provenienti da classi superiori – i “tutor” - deputati all’accoglienza delle matricole.

Sono loro difatti a proporre delle attività che hanno lo scopo di favorire la conoscenza tra i ragazzi, di avvicinare quelle tante estraneità disvelandole in una epifania reciproca in cui, attraverso giochi, oggetti e brevi storie ci si racconta vicendevolmente.

Ed è proprio durante una di queste attività che dirompe in tutta la sua evidenza un bisogno di partecipazione e di comunicazione che nessuno di loro confesserà mai apertamente, ma che è lì, vero, palpabile, straordinariamente prezioso, divenuto necessario da quando la DAD ha rivelato che da soli non si può stare.
“Mostra o racconta di un oggetto cui sei particolarmente legato e che in qualche modo parli di te”: sembra un esercizio innocuo, una sorta di gioco di società di quelli che un tempo si facevano alle feste e al quale non si prestava mai attenzione a meno che non servisse come strumento per dichiararsi alla ragazzetta di turno o confessare una un desiderio segreto.

C’è appena un po’ di imbarazzo iniziale, ma è sufficiente che il primo dia l’esempio cominciando il suo racconto per dare a tutti gli altri il coraggio di aprirsi.

Quella cui assisto è la più bella delle rivelazioni, il dono d’una intimità che dovrebbe accompagnare lo sterile appello dei nomi letto da un registro delle presenze per assegnare a ciascuno non solo un’identità anagrafica ed un volto ma anche un vissuto e un’anima.

Alessandro mostra la foto di sua nonna: è con lei che è cresciuto poiché i suoi genitori non c’erano mai ed ora che “sta attraversando un momento difficile” ne porta con sé l’immagine.

Massimo rigira tra le dita un portachiavi di metallo, glielo aveva regalato suo fratello tanti anni fa, quando ancora sorrideva alla vita e parlava con lui, prima di chiudersi in un silenzio ed un isolamento che ora nessuno più riesce a scardinare.

Ilaria racconta della sua prima e ultima coppa vinta ad una gara di danza moderna: non può più ballare da quando ha scoperto di avere un cuore troppo fragile per poter affrontare qualunque fatica.

Ambra ha al collo una catenella da cui pende un piccolo cilindro, una capsula – spiega lei – che simboleggia il bozzolo in cui la sua insicurezza tende a farla rinchiudere. Suo zio vi ha infilato dentro un bigliettino su cui ha scritto “credi in te stessa”, ed è a quella esortazione che si appella quando sente che quel bozzolo sta diventando troppo stretto.

Un pacco di lettere custodite all’interno di un’unica busta più grande è “la formula del coraggio” che ha dato forza a Nicole in un periodo buio della sua giovane vita; contiene i messaggi e le esortazioni che persone mai dimenticate le hanno scritto, offrendogliele come la zattera cui aggrapparsi per vincere la tempesta.

Bo si esprime a stento in italiano, ma ciò che vuole dire è chiarissimo quando mostra la foto della bandiera del suo Paese, un simbolo di identità ed appartenenza, la radice che i ‘perché’ e gli ‘altrove’ pretesi dalla sua vita non estirperanno mai.

E poi c’è Giulia, che porta legata al collo una medaglietta con scritto “Alessandra” e tatuata sul polso la parola “mamma”, seguita da un cuore che ha un lembo scucito. Mostra una piccola vera d’oro, la fede nuziale di quella mamma volata via troppo presto ed il cui nome – Alessandra, appunto – è inciso al suo interno insieme a quello di Fabio, suo papà. “Non avevo un buon rapporto con mio padre” – dice Giulia, che ferma con un altro anello quella vera troppo larga per le sue dita – “ma quando mamma se n’è andata è diventato necessario stringerci l’uno all’altro per trovare la forza di vincere il dolore. Questa fede, con i due nomi che contiene, rappresenta quindi l’anello che mi ricongiunge ad entrambi, che tiene viva la memoria dell’una e mi consola con la presenza dell’altro”.

Oggi non è solo il primo giorno di scuola.

Oggi è il giorno del ritorno: alla bellezza delle parole e delle emozioni, alla ricchezza dell’essere insieme e vicini, alla libertà di non dover nascondere i groppi di dolore ed i bagliori di luce che ciascuno, insospettatamente, custodisce e a quel bisogno degli altri che la solitudine e l’isolamento hanno rivelato in tutta la sua essenziale necessità.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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