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In piena facoltà

Autore: Ester Annetta
Come ogni giorno, la mattina del 22 novembre 2020 Samantha D’Incà esce di casa per andare a lavoro. Samy – come la chiamano tutti affettuosamente - ha 30 anni; è minuta, allegra e innamorata della vita.

Non può nemmeno lontanamente immaginare che la sua esistenza sta per cambiare drasticamente e nemmeno può sfiorarla il dubbio quando, inciampando nel vialetto di casa, cade e si rompe un femore. Una scocciatura, certo, ma con un intervento e la riabilitazione potrà tornare come prima.

Invece qualcosa va storto: in sala operatoria un batterio ribelle penetra nel suo organismo e, lentamente, lo devasta. Prima le si gonfiano le gambe; poi le sue condizioni generali peggiorano, finché i suoi polmoni collassano. Il suo cervello si spegne e, con esso, ogni reazione ed ogni residua espressione di vitalità.

La diagnosi è terribile: Samy è condannata all’immobilità, ridotta allo stato vegetativo. Solo nutrizione e idratazione artificiali possono mantenerla in vita.

Più tardi un luminare stilerà una dettagliata relazione in cui constaterà che, se si dovesse fare una lunga riabilitazione, forse la giovane – che è bloccata in posizione fetale - potrebbe avere un minimo miglioramento che le consentirebbe di raggiungere le facoltà di un bimbo di 2 mesi.

I genitori di Samy le sono sempre accanto, increduli e forse ancora fiduciosi che qualcosa possa cambiare, che la loro figlia risorgerà da quella condizione e riprenderà a vivere davvero. Ma col passare delle settimane e poi dei mesi ogni speranza ed illusione si sgretolano: la condizione di Samy è irreversibile; non tornerà. Il suo corpo, come un involucro vuoto, è; le sue azioni, la sua volontà, la vita stessa erano: l’imperfetto è il tempo verbale che coniuga la sua esistenza, in contrasto al presente di un corpo che è solo un’entità senza essere.

No, Samy non avrebbe voluto una vita così. Lo aveva detto in più occasioni, davanti al dramma di altri “vegetanti”: di Dj Fabo, quando, seguendone la vicenda, ripeteva che sarebbe stato giusto aiutarlo a morire.
Solo che Samy questa volontà non l’ha mai espressa formalmente, non l’ha mai scritta, perché è normale che a 30anni, quando tutta la vita si para davanti con le sue incognite, le sue scelte e la sua bellezza, non venga da pensare ad un epilogo tanto drammatico di fronte al quale la scelta meno dolorosa può essere, paradossalmente, quella di morire.

Lei ce l’avrebbe avuto questo vantaggio rispetto ad Eluana Englaro, il cui calvario è durato 17 anni proprio perché allora – negli anni che videro le cronache e i giudici impegnati nella sua vicenda - non c’era ancora una legge che contemplasse una tale possibilità. È stato, anzi, proprio grazie alla lunga lotta condotta dal padre di Eluana che è venuta alla luce la legge 219/2017, quella che oggi consente di esprimere le proprie volontà circa i trattamenti che si intende ricevere o rifiutare, nell’eventualità in cui ci si venga a trovare in una condizione di incapacità dovuta a malattie o lesioni celebrali irreversibili e invalidanti. Lo chiamano “Testamento biologico”, una curiosa contraddizione in termini che evoca l’idea di una sorta di anteposizione della morte alla vita affidata ad uno strumento – il testamento, appunto – che giuridicamente vale ad esprimere una volontà che deve valere post mortem, non quando si è ancora in vita e per decidere della propria vita!

La dicitura più esatta è, difatti “disposizioni anticipate di trattamento” (DAT) ed indica il documento con cui si disponga di “staccare la spina” che tiene ancora legata la propria vita al solo anonimo scorrere del tempo, delegando un terzo a darvi esecuzione.

E qualora non ci sia stata un volontà espressa in tal senso, quella stessa legge consente che l’amministratore di sostegno nominato alla persona incapace di intendere e volere perché in stato vegetativo, seguendo le volontà di quest’ultima ricostruita davanti al giudice sulla base di condotte e dichiarazioni che essa abbia espresso in precedenza, possa manifestare al medico curante il rifiuto delle cure e dell’accanimento terapeutico, dovendosi per tali intendere anche la nutrizione e l’idratazione artificiali.1

Quest’ultimo è dunque il caso di Samy, per conto della quale ora sarà il padre – appena nominato suo amministratore di sostegno – a poter decidere quando interrompere le terapie che la tengono in vita, avendo un giudice riconosciuto – dopo aver ascoltato vari testimoni - che "Il consenso ad interrompere i trattamenti di sostegno vitale, appare conforme alla volontà della beneficiaria".

Ho letto questa drammatica notizia e tutti i commenti - cattolici e laici - che l’hanno accompagnata. La mia attenzione si è però soffermata prima di tutto su una riflessione suggerita dalla norma appena richiamata, dove si legge che (la legge 219/2017) “….nel rispetto dei princìpi di cui agli articoli 2, 13 e 32 della Costituzione e degli articoli 1, 2 e 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, tutela il diritto alla vita, alla salute, alla dignità e all’autodeterminazione della persona e stabilisce che nessun trattamento sanitario può essere iniziato o proseguito se privo del consenso libero e informato della persona interessata, tranne che nei casi espressamente previsti dalla legge.”

Osservo che l’ormai abusato articolo 32 è oggi chiamato in causa anche da quanti sostengono l’illegittimità del green pass e di forme più o meno velate di “obbligo vaccinale”, invocandolo a difesa di una presunta minaccia al diritto alla vita. Nella legge 219 la prospettiva è invece capovolta, e quell’articolo è viceversa posto a fondamento della rivendicazione d’un diritto alla morte. È curiosa questa ambivalenza di un identico principio, come pure è curiosa la contraddittorietà insita nella considerazione per cui se, in linea generale non è consentito interrompere trattamenti che servono a tenere in vita una persona, il discorso cambia se a deciderlo sia stata lei stessa con una DAT. È come dire: il diritto alla vita è inviolabile, ma solo se siano altri a voler decidere per me, non se decido io stesso!

Mi rendo conto che, a volersi addentrare ulteriormente in tali considerazioni ci si infilerebbe in un ginepraio in cui è tra l’altro elevato il rischio di apparire provocatori soprattutto nei confronti del pensiero cattolico. Lungi da me tale intento.

Basta allora fermarsi più alla sostanza, senza sprofondare nei pantani delle ideologie, e considerare quelle circostanze concrete davanti alle quali anche le rigide posizioni dei benpensanti, improntate all’austerità dei loro precetti, farebbero bene ad allentarsi, sol che riuscissero a cedere a quel senso d’umanità che a volte necessita d’essere la sola lente attraverso cui osservare la realtà.

L’evidenza del dolore, la difficoltà d’una scelta, il dramma d’un padre consapevole che lasciar libera sua figlia significa lasciarla morire finirebbero allora per combinarsi anche ai loro occhi ed imporrebbero la drammatica e tuttavia giusta conclusione per cui rispettare la vita umana può significare anche riconoscere il diritto di morire dignitosamente piuttosto che condannarla a restare imprigionata senza termine in un corpo divenuto prigione.
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1È stato questo uno dei punti cruciali su cui si è dibattuto antecedentemente alla emanazione della legge 219/2017: considerare l’alimentazione e l’idratazione artificiali un trattamento sanitario, e quindi una terapia, o, viceversa, un sostentamento vitale di base e se la loro eventuale sospensione potesse essere effettuata da terzi in mancanza di una diretta ed esplicita volontà del paziente.
Ad intenderle nel primo senso, si sarebbe potuto parlare di “accanimento terapeutico” e quindi legittimare la loro sospensione in base all'articolo 32 della Costituzione italiana e del codice di deontologia medica, dopo un ragionevole accertamento della originaria volontà della paziente.
Al contrario, se intese nel secondo senso, la sospensione dell’l'alimentazione e dell’idratazione si sarebbe configurata come eutanasia, poiché il paziente che ne fosse stato privato non sarebbe morto per le conseguenze dirette della patologia da cui era affetto - come nel caso di interruzione di una cura - ma per l'omissione di una forma di sostegno.
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