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In un cassetto ho trovato

Autore: Ester Annetta
A chi, come me, ha una certa tendenza alla disposofobia e tende, perciò, all’accumulo compulsivo di qualunque oggetto pensi possa, prima o poi, tornare utile, capita sovente di ritrovare a distanza di tempo cose conservate e ormai dimenticate.

È successo così che, qualche giorno fa, aprendo un cassetto, ho ritrovato una confezione ancora integra di mascherine decorate con motivi natalizi, uno degli esempi più semplici e dimostrativi di come, in una società economicamente evoluta, la logica del profitto sappia trarre vantaggio da ogni situazione, anche in tempi di pandemia.

Mi sono ricordata di averla riposta lì circa un anno fa, poco dopo la fine delle feste di Natale, quasi fosse una scaramanzia, domandandomi se ancora l’anno successivo ci sarebbe stato bisogno di indossare quelle protezioni che da troppo tempo mortificano i nostri sorrisi, anche se si tenta di renderle più graziose possibile.

Da lì il pensiero è corso facilmente in altre direzioni, tutte riconducibili però a quell’unica e comune causa che negli ultimi due anni ha comportato un estremo condizionamento del modo di essere di ognuno e determinato un evidente mutamento delle abitudini di tutti.

Ed è perciò stato allora che mi sono accorta che in fondo a quel cassetto era stato in realtà riposto anche molto altro.

C’erano le amicizie reali, quelle intime vicinanze costrette, in maniera obbligata, a deviare anch’esse verso una virtualità da cui erano sempre state tenute distanti, al sicuro, protette da una cornice di autenticità e sincerità che continuava a distinguerle dai tanti effimeri e falsati legami tessuti via social.

C’erano le serate trascorse in compagnia, tra racconti, giochi, risate e buona tavola, quando il problema non era certo quello di sapere oltre quale numero di commensali si passasse ad un rischioso assembramento ma, piuttosto, quello di recuperare qualche sedia mancante.

C’era il tempo fitto di cose da fare, di gente da incontrare, di chilometri da percorrere, di contesti fisici in cui immediate empatie o facili antipatie potevano disvelarsi al solo scambiarsi d’uno sguardo o d’una stretta di mano.

C’erano gli abbracci concessi nello slancio spontaneo d’un impeto affettivo che non era necessario controllare; il “segno della pace” che ci si scambiava in chiesa la domenica; la carezza data ad un neonato cui si concedeva un indice da stringere nella presa istintiva della sua piccola mano; le frasi sussurrate ad un orecchio senza distanze né schermi di bavagli; l’unico ombrello condiviso sotto lo scrosciare della pioggia; i sedili delle auto occupati da qualche passeggero in più di quelli prescritti e le canzoni a squarciagola cantate sulle note d’un’autoradio senza timore di spargere droplet.

C’erano i viaggi, sogni ad occhi aperti che si materializzavano quando “si rompeva un salvadanaio” e si acquistava un biglietto per raggiungere destinazioni visitate con la mente già infinite volte; bagagli da preparare, banconote da cambiare, spazzolini da dimenticare, file d’imbarco da superare, stretti sedili da condividere con vicini sovrabbondanti ed ingombranti.

Una cosa però non c’era, ed è quella che invece li riempie tutti – adesso - gli spazi che ci circondano, straripando dai nostri pensieri e dal nostro fingere che vada “tutto bene”.

Non c’era la paura.

Un giorno forse anche quella sarà rinchiusa in un cassetto, rendendoci in cambio tutto quello che adesso vi è riposto.

Ma non sarà altrettanto facile dimenticarla come un pacchetto di mascherine natalizie.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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