Nella sua infinita sensibilità, la dirigente scolastica di un istituto primario di Viareggio ha sospeso il laboratorio per la festa del papà per non discriminare quei bambini che un papà non ce l’hanno, qualunque sia la ragione di tale mancanza.
“Vederli isolati in un’altra stanza” – ha detto la preside – “mi è sembrato un atteggiamento mortificante e non inclusivo” e si è ripromessa di “ripensare” quell’attività per renderla ugualmente fruibile, ma senza creare disparità.
L’errore – bonario – che spesso si commette in vicende di questo tipo è quello di assumere una visione unidirezionale (o forse estremista), tendente cioè a valutare esclusivamente una “condizione” soltanto, senza tener conto delle ripercussioni che certe decisioni possono avere su quelle inverse. In breve: censurare un’attività per impedire che i pochi che vivono una condizione di “diversità” siano penalizzati, non tutela allo stesso modo chi, invece, quella condizione non la vive e nei cui confronti si determina, paradossalmente, una situazione di discrimine uguale e contraria a quella che si intendeva evitare. Il che, nello specifico, vuol dire: eliminare il laboratorio della festa del papà nel timore di escludere chi – per dato oggettivo – non avrebbe potuto parteciparvi, comporta inevitabilmente un danno “da esclusione” anche nei confronti di chi, invece, non patendo quella mancanza oggettiva, l’attività avrebbe potuto svolgerla.
Sembra un ragionamento contorto, eppure è quello che di fatto oggi viene perlopiù replicato di fronte a vicende scomode, innescando un effetto “cane che si morde la coda” che, in finale, si rivela pregiudizievole in linea generale. A prescindere dal reale indirizzo della (pretesa) tutela proclamata.
Viceversa ci sono altre situazioni in cui il predetto “dualismo” non può funzionare e, dunque, la condotta discriminante si palesa in tutta la sua unidirezionalità, senza attenuanti. E questo è il caso: nella sua infinita insensibilità, l’albergatrice di una struttura di San Martino di Castrozza ha invitato una famiglia a consumare i pasti in una saletta riservata del proprio ristorante - con tanto di vetri ambrati ed oscurati - giacché la presenza del figlio gravemente disabile infastidiva gli altri ospiti. Per tutta risposta la famigliola ha fatto i bagagli ed ha lasciato l’albergo, non senza aver prima denunciato l’accaduto sui social, da dove la notizia è stata prontamente ripresa per essere amplificata dai giornali.
Solo allora l’albergatrice si sarebbe scusata, ripromettendosi tuttavia di fornire la propria versione dei fatti. Il che già di per sé desta dubbio, giacché, ove valide e fondate ragioni avessero determinato la richiesta criticata, la loro esposizione non avrebbe avuto motivo di differimento.
Ma tant’è.
A sconcertare, in queste due vicende, è, per prima e sicuramente, la considerazione che solo una volta passate per la cassa di risonanza mediatica si avverta il bisogno di commentarle, criticarle, recriminare ed estrarre qualunque possibile argomentazione tendente a dimostrare un biasimo che poi, di fatto, raramente corrisponde ad una reale convinzione.
In secondo luogo (ma in realtà è l’appunto principale) ciò che emerge da tali singoli episodi è la dimostrazione della mancanza, ancora oggi, di una chiara e consapevole cultura dell’inclusione che tale si dimostri a prescindere dalle sollecitazioni del momento.
E non rileva che “gli equivoci” avvengano in buona fede (come nel caso della preside di Viareggio) o siano invece alimentati da logiche economiche che travalicano quelle umane (come nel caso dell’albergatrice di San Martino di Castrozza): il punto resta sempre e comunque la necessità di dover partire dalle basi, dal bisogno di favorire una diffusa cultura dell’inclusione che parta dall’assunto che “includere” significa “aggiungere”, creare cioè un contesto che sia a priori predisposto all’accoglienza di chi, per qualunque ragione, sia “diverso”, piuttosto che pretendere che sia questi a doversi adattare ed a dover trovare il suo spazio in un contesto che non gli è congeniale.
Se non si accolgono queste premesse, come si può pensare di estendere il discorso ad altri ambiti – quali, per indicarne qualcuno a caso, quello del riconoscimento dei diritti dei figli di coppie omogenitoriali o dell’accoglienza dei migranti – in cui è palese il difetto dell’esatta comprensione del concetto stesso di inclusione?