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Intestamè: al globe theatre un fuori programma d’autore

Autore: Ester Annetta
C’è sempre.
In ogni opera shakespeariana portata in scena al Globe Theater di Roma, Carlo Ragone c’è. E che il suo ruolo sia quello intenso dell’implacabile Shylock de “Il Mercante di Venezia” o uno meno noto e dirompente, poca davvero è la differenza, poiché anche a parti secondarie riesce a dare sempre un’espressività ed una potenza tali da non lasciarle passare inosservate.

“Intestamè” – il monologo ideato con Loredana Scaramella, già portato in scena in precedenti edizioni prepandemiche e che è un “fuori programma” rispetto al cartellone shakespeariano del Globe – è la conferma della sua straordinaria bravura, della sua poliedricità, della sua capacità di saper catturare il pubblico anche quando apparentemente il filo conduttore del racconto interpretato è sottile, di non immediata intuizione, e l’idioma impiegato (quello napoletano) non sempre di facile intendimento.

Sul palco Ragone è capace di portare vita e vitalità, con un ritmo che, alternando malinconia e ironia, lo rende padrone di quello spazio magico in cui si amalgamano in modo stupefacente musica, movimento, voci.

Il buio iniziale della scena si rischiara lentamente, sembrando quasi la metafora di ciò che, nel corso dello spettacolo, sarà un’autentica e duplice rivelazione: quella che emerge dal narrato ma anche quella dello straordinario talento del suo interprete.

Un uomo avanza lento, piangendo, sulle note d’una musica struggente. Spiega con gesti misurati un foglio di carta da cui – con un misto di amarezza ed ironia che anticipa la sapiente leggerezza con cui a tratti continuerà a diluire il dramma - legge le ultime volontà di suo padre, che dopo aver distribuito le sue poche e misere cose tra i suoi congiunti più prossimi, così conclude: “…«A mio figlio Ferdinando ci lascio tutto. Tutto chell che nun agg’ fatt.”

Inizia così, da questo lascito misterioso e amaro, un racconto che va a ritroso nel tempo, in un Sud d’Italia dove il secondo conflitto mondiale appena finito ha lasciato macerie e miseria, ma gettato pure il seme della speranza in quel sogno americano che potrebbe cambiare il destino dei più audaci.

L’uomo srotola un fagotto che porta sotto il braccio: è la giacca di suo padre, la sola eredità concreta e materiale che gli ha lasciato. La indossa, ed è lì che il viaggio comincia ed anche la magia.

Nei panni di suo padre l’uomo lo fa rivivere: ripercorre le tappe essenziali della sua esistenza, nei luoghi in cui ha vissuto, dall’infanzia in poi.

E allora, attraverso il suo racconto, tutto appare: si vede la Napoli degli anni ‘40; si sente lo schiamazzo dei ragazzini che giocano a pallone in mezzo alla strada e il suono della sirena che annuncia i bombardamenti; si provano la fame e la miseria portati dalla guerra. Ma poi si sentono pure le note d’un inno straniero, il fumo delle sigarette, quella ventata di vita e di speranza che alimenta i sogni di chi di lì a poco salirà su una nave per raggiungere una terra di promesse e di opportunità.

Con indosso quella giacca il figlio a poco a poco ritrova suo padre, le sue speranze, i suoi desideri, le occasioni perdute o rinunciate, le sue disillusioni, giungendo infine a comprendere il senso di quel bizzarro eppure importante lascito.

Tutto avviene sull’unica scena d’un unico atto in cui un solo attore si moltiplica e si trasforma, dando vita a tanti personaggi dalle cui vite continuamente e velocemente entra ed esce, alternandoli persino nei dialoghi, impiegando per ciascuno una diversa voce ed una diversa caratteristica.
Presente e passato si rincorrono; altrettanto fanno realtà e ricordo.

Tra gli uni e gli altri si susseguono canzoni, passi di danza, movimenti continui agili e veloci, pause, riflessioni espresse o più efficacemente suggerite ad un pubblico che di ciò che avrà inteso farà tesoro.

Infine, in un ultimo, lento, movimento circolare, l’uomo si curva, invecchia, arrivando a quel finale di vita in cui ha firmato il suo testamento prima d’andarsene. Ed è lì, che con un magnifico e conclusivo saggio di talento e maestria, padre e figlio si ritrovano a dialogare per l’ultima volta: la loro voci si alternano, ognuna sottolineata da un movimento che è appena uno scostare la giacca dalle spalle ed un ricoprirle a seconda che a parlare sia l’uno o l’altro.

“Papà, ma quand’uno non c’è più, dove va?”, domanda il figlio; e la risposta, d’una bellezza disarmante, è la nota più alta di questo lungo monologo che è potente, immensa, poesia.
 © Informati S.r.l. – Riproduzione Riservata

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