Per ogni giovane italiano che emigra all’estero in modo ufficiale, nella realtà sono tre quelli che vanno via. Sono i numeri di un fenomeno preoccupante e sottostimato, raggiunto mettendo a paragone i dati Istat e quelli di istituti analoghi stranieri, che mostra i contorni di un Paese, il nostro, sempre meno attrattivo per chi è in cerca di un futuro e un lavoro. È quanto raccontava, in modo sconfortante, uno studio realizzato dalla “Fondazione Nord Est” in collaborazione con “Talented Italians in the UK” e diffuso nel novembre dello scorso anno. “È chiara l’esistenza di un circuito di movimento giovanile all’interno dell’UE e della Svizzera – commentava Luca Paolazzi, direttore scientifico della Fondazione nord est e tra gli autori dello studio – circuito al quale però l’Italia non partecipa, se non come primo fornitore”.
Secondo l’Istat, nel decennio tra il 2011 ed il 2021, l’Italia ha perso ben 377mila giovani tra i 20 ed i 34 anni, costretti a scappare verso posti dove la carriera è un diritto e non il risultato della “spintarella” ancora in voga. E il dato si fa addirittura impressionante aggiungendo le cifre del “Censis”, secondo cui negli ultimi vent’anni, gli italiani fuggiti a gambe levate sono stati 1,8 milioni, il 32% della fascia di età fra 25 e 34 anni.
La lontananza non porta nostalgia e voglia di tornare neanche in chi ha fatto carriera all’estero, come il misero 22,8% dei dirigenti d’azienda che secondo un altro report di Astraricerche, ManagerItalia e Kilpatrick vorrebbero tornare indietro. Il tutto, a fronte di appena 51mila ingressi in Italia di giovani stranieri, poco attratti dall’Italia intesa come patria delle opportunità, ma disposti a viverci per una manciata di mesi, quelli sufficienti a completare corsi di studi.
Gli esperti lo definiscono “inverno demografico”, perché ai giovani in fuga va per forza di cose aggiunto il tasso di fertilità medio delle donne, sceso a 1,24 quando per invertire la rotta sarebbe necessario arrivare al 2,1%.
Ma non è così: nel 2023, i nuovi italiani nati sono stati meno di 400mila e senza andare indietro fino al 1964, l’anno del “boom” economico, quando fu toccato il record del milione di nascite, basterebbe augurarsi di tornare al 2008, quando l’anno si era chiuso con 600mila nuovi nati. Meno giovani, senza per una volta guardare a interessi pratici come pensioni e sanità, significa avere meno braccia, meno talenti, meno innovazione, meno speranze.
Non è solo la necessità di trovare la spinta giusta alla carriera a trasformare l’Italia in un piatto difficile da digerire, c’è di mezzo un profondo atteggiamento culturale che da queste parti manca mentre all’estero è inculcato e finisce per travolgere piacevolmente chi arriva. “All’estero il lavoro è solo una parte della realizzazione di sé stessi, non l’unico scopo della vita: è qualcosa di importante, ma più inteso come mezzo per elevare la persona nelle sue competenze, conoscenze e stima di sé. Oltre frontiera i giovani vengono responsabilizzati, resi autonomi sul piano decisionale, ascoltati e se meritevoli innalzati ai più alti gradi di un’azienda, a prescindere da età e titolo di studio. Qui, prima di arrivare a qualunque posizione bisogna essere vecchi e il trattamento riservato ai giovani è di vero sfruttamento: è chiaro che non è un luogo ospitale per le nuove generazioni, che abbiamo, invece, un estremo bisogno di attirare”.
Un bisogno di futuro che non tocca soltanto chi sceglie di andarsene, ma anche chi cambia regione nella speranza di trovare qualcosa di meglio. A rimetterci è il solito Sud: nel 2011, secondo il Rapporto italiani nel mondo 2023 curato dalla Fondazione Migrantes della Cei, la “migrazione interna” ha sfiorato di poco 1,5 milioni di spostamento dal Sud al Nord, in particolare Emilia Romagna, Friuli e Lombardia.